Torcibudella. A. Caronia per Linus

Antonio Caronia (Linus ottobre 1985)

Dilaga ormai nel cinema horror un robusto e realistico compiacimento nella rappresentazione del disfacimento della carne. Dai primi, timidi zombi di Romero, ancora riservati nell’esibizione del proprio pus, siamo passati ai lupi mannari americani di John Landis, generosi in fistole e occhiaie verminose, per finire al mosto burlone e squartatore di Nightmare – Dal profondo della notte di Wes Craven, che non scherza neppure lui quanto a putredine e schifo. Sensibilità e morbosità di tipo anglosassone, o magari nordica se volete, mi sono sempre detto. Mi sono dovuto ricredere leggendo la mole di documenti che presenta Piero Camporesi nel suo ultimo libro Le officine dei sensi. Quanto a precisione e accanimento nella descrizione dei processi di putrefazione i nostri predicatori del Seicento e Settecento danno dei punti a tutto il romanzo gotico: “Il ventre così giallo e gonfio comincia a squarciarsi e a dare qua uno scoppio e là una rottura: dalle quali ne sbocca fuori una lenta lava di marciume e di schifezze in cui a pezzi e a bocconi quella carne nera e maciosa galleggia e nuota”. ( È una predica quaresimale del 1752, e mi fermo qui perché non so se state leggendo dopo pranzo). Questo libro di Camporesi (un professore di letteratura italiana che leggendo Artusi si è reso conto di quante cose si potessero tirar fuori dalla letteratura “minore” e ha deciso di coniugare la sua straordinaria erudizione letteraria alla conoscenza e all’amore per le tradizioni popolari e le “culture materiali”), questo libro, dicevo, si può leggere proprio come un libro dell’orrore, o come una fiaba. Non c’è soltanto la considerazione del corpo dell’uomo come centro di una cultura, quella tardomiedevale e poi controriformistica e insomma moderna. Attraverso la mediazione dei sensi umani (vista, udito, olfatto) vengono ricostruiti dei sistemi simbolici, delle figure, come la mela e il formaggio, apparentemente naturali, in realtà elementi di mediazioni fra l’uomo e il mondo. Camporesi  si ferma meno sulle culture preindustriali (quella pastorale e quella contadina) alle quali, si sente, va una sua nostalgica preferenza, e preferisce invece addentrarsi nelle dissezioni dei cadaveri e dei corpi vivi degli anatomisti rinascimentali e moderni, nelle diete equilibrate dei monaci, in quelle deprivanti, al limite dell’anoressia, degli anacoreti tebaici e poi dei gesuiti. Per ricostruire le pratiche su cui si è fondato, forse anche il nostro immaginario contemporaneo. È il corpo dell’uomo, come abbiamo visto, al centro dell’indagine minuziosa e affascinante di Camporesi, anche nella ”ferocia” delle automortificazioni “quale soltanto un’intellettuale può permettersi di sfogare su se stesso”, come appunto nella pratica di Sant’Ignazio. Le condizioni materiali e il rapporto col divino sono cambiati, da allora a oggi, non c’è dubbio, eppure il nostro immaginario si nutre, ancora oggi, dell’attrazione/repulsione morbosa che proviamo di fronte alle infinite possibilità della crudeltà.