Milano, istruzioni per l’uso (prima parte)

1^ Parte

Premessa

Si può parlare della città in molti modi. Esiste ormai una bibliografia così vasta da essere quasi inutilizzabile. Certamente si può limitare il campo, si può parlare ad esempio della città a partire dalla rivoluzione industriale o dalle grandi megalopoli del sud del mondo; ma in ogni caso ci si trova di fronte a un compito sterminato. In questo senso molti scelgono di fare astrazioni teoriche, sintesi possibili, ma così facendo si perde una parte della vita, delle percezioni del mondo che si formano dentro la città. D’altronde Benjamin, che dalla città era affascinato, fu costretto a scrivere centinaia di pagine per raccontare-interpretare la sola Parigi. Io proverò più modestamente a raccontare per frammenti una città come luogo possibile della mente, dell’uso e del vissuto che una parte dei suoi abitanti ha praticato indipendentemente dalle intenzioni degli urbanisti o degli ingegneri programmatori.

Una città da immaginare

La città è Milano. Metropoli industriale e di fabbrica diffusa (a differenza della Torino quasi esclusivamente operaia e dominata da una monoborghesia), luogo di commerci, città-stato con molti satelliti (Brescia, Bergamo. Como, Pavia ecc., ma nel passato anche Pavia, Piacenza, Novara, Verona). Collocata nel cuore della padania percorsa da fiumi e canali (interrati o scomparsi?)1, da autostrade e ferrovie come si conviene a tutte le città che storicamente possono vantare un marchio Doc. Ma anche una città difficile da raccontare perché le vicende storiche la hanno portata ad essere una inesauribile  divoratrice di se stessa. Nel corso di questo secolo non ha mai smesso di distruggere e ricostruire, tanto che l’età media delle sue case è la più bassa del paese Italia (Milano età media delle case 38 anni, Firenze 50 anni, Genova 59 mentre la media nazionale è di 44). In  questo senso girando per le strade molto è da immaginare mentre alcuni luoghi a volte scompaiono per riapparire casualmente.

  1. I fiumi minori hanno avuto un importanza enorme nello sviluppo della città. Milano è infatti irrorata, attraversata da fiumi e canali che provengono da tutte le direzioni; da nord-ovest il Nirone, da nord-est il Seveso e il Lambro, da sud-ovest l’Olona. Canalizzati questi corsi d’acqua hanno segnato la vita della città tanto da farla sembrare per lunghi periodi una città portuale. Oggi rimangono i Navigli e gli altri vanno soprattutto “immaginati”.

 

L’estuario del sangue semplice

Arrivandoci da Sud il primo impatto lo si ha attraverso le periferie tra “le case operaie che si intravedono in lontananza, pietra esatta e priva di gioia”2. La tentazione è proprio quella di non entrarci ovvero di rimanerci il meno possibile. Ho sempre pensato che l’architetto Stacchini nel progettare la Stazione Centrale fosse partito da una qualche profonda e oscura sensazione di questo genere. Come dire: guardate che state entrando nella tremenda capitale del lavoro, questo monumento di pietra, di ferro, marmi e lamiere è la sua potenza e il suo limite; di qui non si parte più: che si entri o si esca la destinazione rimane ignota.  Un monumento iniziatico, simbolico (come dice Faré: “una cosa che ne rappresenta un’altra e alla quale è collegata”) utile a ingenerare soggezione. Una cattedrale disciplinare carica di grandezza e tenebra. Nei primi anni Sessanta restavo a volte delle mattine intere a guardare i “treni del sole” che rovesciavano sotto le cinque tettoie nere3  decine di migliaia di immigrati meridionali. Scendevano, si guardavano intorno spauriti con negli occhi e nei volti le luci e i sapori di altre genti. Se non c’era il parente ad attenderli, gli affanni e la stanchezza potevano smarrirli e molti tornavano istintivamente nei vagoni sporgendosi dai finestrini come a voler ripetere l’arrivo o forse desiderare di tornare via. Ma poi si avviavano curvi verso le scalinate di marmo, giù nella sala di ingresso dalla grandezza inumana dove dall’alto apparivano come insetti oscuri senza memoria: sconfitti nei volti inespressivi. Intorno a loro, nel travertino ingrigito, emergevano come guardie di pietra le statue dell’Agricoltura, del Commercio, della Guerra e della Pace. Qualcuno uscendo da quell’incubo volgeva il capo verso la facciata sbattendo le palpebre di fronte a quell’orrore scolpito in pietra lavorata di Nabresina. Portali immensi seguiti da una teoria di porte minori e finestroni difesi da vetri e sbarre e poi animali minacciosi, colonnati, frontoni, bassorilievi e tettoie oscure. Forse era ancora più difficile tornarci dentro per scappare e allora, dopo uno sguardo rapido – quasi incantato – alla lama lucente del grattacielo Pirelli, via via a testa bassa nelle strade fulminate dal traffico, travolte da una folla in cui “serietà e rapidità sembrano convergere verso qualche scopo sublime”4. Ma anche tutti gli altri viaggiatori (operai pendolari, studenti, donne, uomini) sembravano comportarsi come i nuovi arrivati. Tutti “si buttavano per la scalinata e sembrava rotolassero, sembravano acqua buia che va giù, chissà dove; così sparivano”5. Leggendo molti anni dopo il libro di Anna Maria Ortese6 (lei lo aveva scritto nel ’58) rimasi colpito di come, questa colta e intelligente scrittrice romana che amava Napoli, avesse capito la funzione simbolica della mostruosa Stazione Centrale. Stacchini nel progettarla aveva immaginato una gigantesca “porta del lavoro, ponte della necessità, estuari del sangue semplice”. I duecento orologi sparsi ovunque non consentono indugi, scambi comunicativi: altri orologi attendono disseminati per la città e nei luoghi di lavoro.

  1. Anna Maria Ortese, Silenzio a Milano, La Tartaruga, Milano 1986
  2. Così la descrive Anna Maria Ortese: “…quelle cinque tettoie nere, quella collina di cinque semicerchi neri, formati una specie di corpo di ragno appiattito al suolo con le zampe aperte”. In Silenzio a Milano, cit.
  3. Anna Maria Ortese, op. cit.
  4. Ibidem
  5. Ibidem

Homo palpitans

Il tempo che ha prodotto il grandioso sviluppo della città, ha creato

anche i pittori e i poeti che cominciarono a sentire la bellezza e a

ispirare ad esse le loro opere. Ma sono stati sopraffatti da un’ondata

di sospetti, di bugie, di moralismi. Li si accusa di essersi abbassati al

fango delle strade, senza neppure sospettare che proprio in questo

sta la loro gloria: essi trovarono bellezza e grandezza proprio nei

luoghi dove la massa degli uomini passava incurante.

August Endell, La bellezza della metropoli, 1908

Eppure nella sua durezza Milano è forse l’unica città italiana che consente di vivere la modernità. Intendendo con questo termine, fin troppo usato, una forma dell’esperienza vitale che costringe i soggetti a confrontarsi continuamente con il cambiamento, e dove il “luogo” dei vissuti è “un ambiente che ci promette avventura, potere, gioia, crescita, trasformazione di noi stessi e del mondo; e che al contempo, minaccia di distruggere tutto ciò che abbiamo, tutto ciò che conosciamo, tutto ciò che siamo”7. Dove tutto ciò che ci sembrava solido e a volte condivisibile può dissolversi nell’aria improvvisamente e ineluttabilmente. Un breve racconto metropolitano, quindi, all’interno del quale i luoghi sociali si distruggono e si ricompongono sotto la spinta dei poteri, dei processi, delle risposte – affermative o negative – che i soggetti danno ai processi alti che vorrebbero inglobare le loro vite. Il luogo sono i quartieri letti come microsistemi sociali e commerciali che producono non solo lo spazio di appartenenza ma anche la personalità di chi vi abita. Come viene descritta Madame Vaquer da Balzac e cioè attraverso la consonanza della sua persona con il luogo, il milieu che influisce sulla sua cultura e visione del mondo. I quartieri non sono quindi solamente dei luoghi della metropoli, ma territori che producono cultura, universi vitali di riferimento, destini contraddittori. E infatti quale è la condizione per cui gli uomini riescono ad abitare uno spazio (territorio)? È possibile affermare che per abitare bisogna fare amicizia con un luogo e per fare amicizia bisogna “addomesticare” il territorio circostante. Ai fini del racconto si possono ipotizzare tre condizioni di “addomesticamento”:

  1. La trasformazione materiale (adattamento utilitaristico).
  2. La dimensione simbolica (riferimento ai valori storici, la memoria, l’invenzione della tradizione: lingua, dialetto, modi di dire, culture materiali).
  3. La dimensione immateriale (i sistemi di relazione e di scambio, le reti).

Senza voler teorizzare ulteriormente  (che non è nei compiti e nel bagaglio di competenze di chi pratica il “racconto orale”) un quartiere – ma lo sarebbe anche un paese – è il prodotto della stratificazione successiva di tutti questi processi di artificializzazione. La differenza con un paese o una cittadina di provincia consiste principalmente nella moltiplicazione dei luoghi-quartieri che sommati producono la forma di una città a sua volta somma di stratificazioni e artificializzazioni. All’interno di queste geometrie moltiplicate la vita degli uomini si intreccia continuamente tra il bisogno di luoghi amici (la propria strada, la compagnia da bar, le relazioni con il proprio quartiere, ecc.) e la ricerca di incroci, di incontri con altri territori contigui altrettanto caratterizzati da sistemi amicali e abitati da persone sconosciute e di cui occorre immaginare i pensieri8. Quindi continue possibilità di pericolo e di suspence9 che accentuano però la varietà delle esperienze, la possibilità dell’avventura, la curiosità per gli altri e la necessità di addomesticamento: che tanto è più efficace quanto più è il prodotto di saperi, di molti saperi e di molti vissuti in territori diversi. Tutto costringe quindi a muoversi in continuazione all’interno di una struttura spaziale (fondamentalmente  la concentrazione) che determina un accentuarsi della mobilità. Mobilità spaziale, certo, ma soprattutto mobilità sociale10. Ed è solo parzialmente rilevante che ciò sia prodotto dalla condizione “disciplinare” di recarsi al luogo di lavoro perché questa necessità si verifica continuamente anche durante la fruizione del tempo libero. L’uso sociale dello spazio urbano, i motivi che fanno diventare certi luoghi punti di incrocio e di incontro (piazze, piazzette, angoli urbani, certi bar, luoghi diversi del loisir, ecc.) e quindi di socializzazione, sono quasi esoterici o indecifrabili se non si attua un procedimento che porti nei territori della memoria dei luoghi, di quanto hanno lasciato all’interno degli stessi coloro che li hanno frequentati e di come il loro fermarsi sia anche una risposta che i soggetti danno al continuo tentativo di rinchiuderli nella separatezza delle case. Infatti uno dei più singolari paradossi della vita urbana non consiste nell’aver gettato la gente per strada (come sembrerebbe) ma nella tendenza a costringerla a vivere rinchiusa negli uffici e nelle case. Apparentemente quindi la città intensifica la dimensione pubblica ma in realtà la sua funzione disciplinare e alienata è quella di “costringere” alla vita privata11. L’organizzazione amicale del quartiere e il “girovagare” alla ricerca di incroci e stimoli sono anche la risposta alle dinamiche autoritarie dell’organizzazione urbana12. Nel raccontare Milano, quindi, terrò presente continuamente questa lotta incessante tra vissuto di strada e disciplinamento privato che a un punto determinato del suo evolversi consentano di aggirarsi in questa città comprendendone l’intima drammaticità e il valore oramai sbiadito di molti suoi luoghi.

  1. Marshall Berman, L’esperienza della modernità, Il Mulino, Bologna, 1985.
  2. È ovvio che l’angoscia dello “sconosciuto” non si verifica nel paese o nella cittadina dove tutti si conoscono e dove il “privato” è difficilmente preservabile. Balzac ha scritto pagine molto acute sulla visibilità della vita di provincia.
  3. È noto d’altronde che il racconto “giallo” o thrilling nasce insieme allo svilupparsi della metropoli moderna. Una sintesi efficace ed ironica dell’imprevedibilità della vita metropolitana è rappresentata da un film come Fuori orario di Martin Scorsese.
  4. Vedi a questo proposito, e in maniera molto più precisa, Franco Moretti, Segni e stili del moderno, Einaudi, Torino, 1987. In particolare i capitoli “Homo palpitans” e “Dialettica della paura”.
  5. Ciò non solamente nell’800 quando la cultura borghese è stata essenzialmente una cultura della vita privata, ma anche soprattutto e “scientificamente” con l’affermarsi del fordismo che, a differenza del taylorismo, non è esclusivamente un modello di organizzazione del lavoro, ma una specie di “polis” di concezione autoritaria dell’organizzazione della società esterna alla fabbrica. La città fordista è un modello dell’organizzazione dei consumi e della vita privata dei cittadini.
  6. Mi rendo conto che questa affermazione contraddice non poco le affermazioni di Simmel e Benjamin secondo i quali “rispetto al villaggio la città ha certo valorizzato la strada come strumento di comunicazione (anche, ovviamente, di comunicazione di informazioni, cioè di stimoli) – ma la ha drasticamente e irreparabilmente svalutata come luogo di esperienza sociale”, ma sono convinto che – fin quando è stato possibile – la strada (con tutti i suoi luoghi di incontro e di incrocio) sia stato il luogo privilegiato del formarsi di quella capacità continua di adattamento e trasformazione di se che caratterizzano la personalità urbana.

Un triangolo molti destini

Parafrasando Umberto Eco (in Diario minimo)13 appare evidente che Milano abbia una struttura circolare spiraliforme anche se non molti indigeni se ne rendono conto nel corso della loro vita14. Altrettanto ovvio (assumendo i concetti euclidei di geometria piana) che una simile struttura costringe i suoi abitanti a muoversi principalmente mediante triangolazioni i cui angoli acuti si insinuano nel centro storico mentre le basi conseguenti si dilatano nelle periferie. Ovviamente i triangoli sono molti ma ai fini del racconto viene scelto quello che collocando l’angolo acuto dalle parti di Piazza Diaz fa scorrere uno dei lati verso sud inglobando Porta Romana, il Corvetto, Rogoredo e poi Porta Vigentina, Opera e Pieve Emanuele, e l’altro verso sud-ovest inglobando Porta Genova, Porta Ticinese, il Giambellino, Corsico, il Gratosoglio, Rozzano, ecc. Ovviamente la triangolazione sarebbe possibile anche altrove (ad es. collocando l’angolo acuto a Brera e poi scendendo verso l’Isola, la Bovisa, Affori o invece Porta Volta, Greco, ecc.), ma l’area scelta è più densa di stratificazioni storiche e di memorie relativamente drammatiche. Si può dire che nell’area contigua al suo angolo acuto si sia svolta, a partire dagli anni Cinquanta, una dura battaglia esistenziale che ha costretto soprattutto i giovani abitanti a dare continue risposte alle pressioni esercitate dall’avanzare dei processi ristrutturativi. Da questo confronto sono emerse continuamente delle figure sociali le cui lotte hanno poi lasciato tracce, segni, luoghi sparsi per la città. Le loro risposte esistenziali erano speculari alla complessità attraverso la quale potevano percepire le infinite differenze e dinamiche che convivono nella metropoli. Come spesso accade la loro presenza fisica è frequentemente scomparsa dai luoghi per ripresentarsi trasformata altrove. In questo senso la metropoli non è solo lo spazio scenico di queste vicende “ma anche il ‘luogo’ di sparizione dei soggetti, un ‘luogo’ assolutamente fantasmatico di eventi che si accendono e si spengono come cerini”15. Cercherò quindi, usando degli espedienti, di raccontare le vicende di questi luoghi e di questi soggetti effimeri. Per capire bisogna forse aver fatto qualche volta nella propria vita “della notte il giorno e del giorno una corsa senza tregua”16. I quartieri Bottonuto, Pasquirolo, Via Larga-Pantano (oggi sostanzialmente scomparsi) con al centro lo storico Verziere (mercato di frutta e verdura) in Piazza S. Stefano, erano sicuramente un residuo della città preindustriale, ma proprio per la loro vicinanza al centro pulsante e vitale della città (questi quartieri lambivano la Piazza del Duomo), rappresentavano uno straordinario mix sociale e di classe. Convivevano in questi luoghi le formazioni sociali più disparate con una gamma che andava dalla nobiltà incrociata con le borghesie industriali fino al sottoproletariato malavitoso. I confini territoriali erano estremamente labili. Un angolo di strada, una piccola piazza, un bar, un giardinetto. Ma questo continuo confronto con livelli e stili di vita diversi sortiva l’effetto di accorciare enormemente le distanze sociali complessificando le varie esistenze e influenzando i reciproci destini. I locali del “tempo vissuto” non potevano che essere il risultato di questo cocktail umano dai sapori indistinguibili. Nascono infatti in quegli anni i locali più innovativi e trasgressivi del dopoguerra e nascono tutti proprio intorno al cuore amministrativo e finanziario della città. Fra tutti si possono citare i più rivoluzionari: il Santa Tecla Honcky Tonky17, l’Aretusa e la Taverna Messicana. I giornali li definirono “esistenzialisti” e i giovani frequentatori fecero propria la definizione non conoscendo minimamente il significato del termine. Erano locali oscuri e realizzati in profondi scantinati (caves dicevano i giornalisti colti) affrescati da pittori che poi sarebbero diventati piuttosto famosi (Baj, Manzoni, Crippa ecc.). La musica che faceva sognare era indiscutibilmente il jazz (come in “Round Midnight” di Tavernier) che veniva eseguito da complessi dai nomi altisonanti e curiosi Original Lambro jazz-Band, Milan College jazz Society o – addirittura – Rocky Mountains Old Time Stompers. Questi ultimi  “strimpellatori delle montagne rocciose” erano in realtà impiegati di banca, magazzinieri, operai (come del resto i membri delle altre due formazioni) ma convinti a tal punto della loro scelta dal diventare successivamente autentici musicisti professionisti (tuttora presenti sulla scena musicale). Alla Taverna Messicana poi, debuttarono jazzisti allora sconosciuti del calibro dei Cuppini, Valdambrini, Masetti, Basso, che molto più tardi vennero definiti i senatori del jazz italiano. Alla Taverna ci andò anche, nel ’56 o nel ’57, Billie Holiday, proprio quella de “La signora del blues” ed erano veramente in pochi ad amarla e conoscerla. Alla profonda innovazione musicale non poteva che seguire quella del ballo: bebop, blues figurato, rock and roll, dilagarono nella città a partire da questi locali. Ma il carattere innovativo (modernizzante) di questi locali non era solamente di carattere musicale – anche se i balli conseguenti erano indubbiamente rivoluzionari -, il luogo, le pitture, il modo di vestirsi dei frequentatori (in questo senso la prima “rivolta dello stile”), la sostanziale informalità del rapporto uomo-donna; permettevano di mischiare e rendere indefinite le differenze di classe così da sconvolgere le monoculture di appartenenza. Ovvio quindi che le compagnie di strada di questi quartieri fossero dotate di bagagli soggettivi in qualche modo antitetici a quelli acquisibili nei grandi quartieri operai collocati tra la circonvallazione delle mura spagnole e quella detta delle regioni. E non solo per la frequentazione dei locali esistenzialisti, ma perché tutti i luoghi del quartiere (dei tre quartieri) erano sostanzialmente dei cuscinetti comunicativi come diretta espressione della composizione sociale e urbana esterna. In alcuni luoghi permanevano certamente rigide esclusioni determinate sostanzialmente dal modo di stare, dallo stile che certi locali richiedevano, ma la questione era reciproca tra le classi o le sottoclassi18.

  1. Vedi in questo testo il divertente capitolo intitolato “Il paradosso di Porta Ludovica Saggio di fenomenologia topologica”. Bompiani, Milano 1975
  2. Più colta la definizione che ne da  Bonvesin De La Riva nel suo De Magnalibus Mediolani (1288) “civitas ista ipsa orbicularis est ad circulli modum, cuius mirabilis rotonditas perfectionis eius est signum”.
  3. Vedi Massimo Ilardi in La città senza luoghi Costa & Nolan, Genova 1990.
  4. Ibidem
  5. Come è noto gli Honky Tonky erano le case da gioco malfamate di New Orleans dove praticamente è nata la musica jazz delle origini.
  6. Esemplificando si può dire che i figli della nobile borghesia avevano “difficoltà” a frequentare un bar come il “Porto Franco” (in fondo a via Chiaravalle nota per ospitare un rinomato casinò o bordello) sede della mitica “banda degli scootter” (vedi il mio “Dal nomadismo urbano al mangiare il centro” – Consorzio Aster – Milano) così come la banda del Porto Franco entrava raramente al bar Tavecchia proprio dove esisteva l’antica porta Tosa che dà il nome alle ragazze nel dialetto milanese (“tosanne” o “tosa”) da una antica vicenda longobarda che vuole fosse usanza il tagliare le trecce (tonsare) – che si suppongono bionde come quelle della manzoniana Ermengarda – alle ragazze al tempo delle prime mestruazioni significando così il loro essere “pronte per fare l’amore”. Restando però l’obbligo virgineo fino alle nozze. Avendo tradito quest’obbligo, una giovane principessa venne “tonsata” al pube sulla pubblica piazza del nobile quartiere. Esiste al museo del Castello Sforzesco un bassorilievo che illustra questa storica umiliazione.

Il boogie-woogie tra le ciminiere

Spostandoci di alcune centinaia di metri nell’ipotetico triangolo, ci si poteva trovare sprofondati in una realtà completamente diversa. Si poteva entrare in un esemplare quartiere operaio: l’umile e sconosciuto Vigentino. Collocato intorno al Parco Ravizza, costellato di fabbriche (l’OM, la Brown- Boveri, La Centrale del Latte, ecc.) con le case rigidamente riconoscibili per tipologia, di ringhiera o popolari per gli operai, più decorose per gli impiegati, palazzine per i dirigenti. Un quartiere monoclasse con storiche sedi politiche comuniste e – a significare il destino dei suoi giovani abitanti – il grande Istituto di Avviamento Professionale Pacinotti dove si andava obbligatoriamente in tuta subito dopo la scuola elementare. Un quartiere statico e autosufficiente con le sue dignitose osterie (nei giorni feriali in tuta e alla domenica: giacca, camicia bianca, cravatta col nodo scappino, che per impararlo ci vuole la stessa abilità di un tornitore specializzato) dove si beveva il “grigioverde”19; la sua rete commerciale con i gestori che vivevano nel quartiere (vuol dire rispondere continuamente della “qualità”); i cortili enormi delle case di ringhiera, l’oratorio e il cinema popolare (due film, 100 lire); ma soprattutto le balere. Quelle con il “ballo a richiesta” come il Ragno d’Oro a Porta Romana. Posti enormi, gli uomini da una parte e le ragazze dall’altra. Per chiedere il ballo devi attraversare tutta la sala e mille occhi ti guardano, se la ragazza rifiuta lo capiscono tutti e vorresti sprofondare. Allora devi imparare un sacco di espedienti comunicativi o devi diventare un grande ballerino. Ma non del “liscio ambrosiano”20  – che non ce la farai mai con i quarantenni dominatori della balera e d’altronde non lo senti nelle gambe e nella testa -, ma qualcosa di più entusiasmante e carico di energia proprio come si vede nei film americani e che si dice venga già ballato “giù dalle parti di Piazza Diaz”. Nasce così in viale Bligny al Vigentino il mitico Principe. Una sala cinematografica, un posto dove ci sono gli incontri di boxe ma dove il sabato e la domenica esplode il boogie-woogie e il rock and roll. Il giovedì sera vengono quelli di S. Tecla e dell’Aretusa a insegnare. Quelli del Vigentino ancora con la tuta della fabbrica o dell’officina, gli altri con i jeans Levi’s, le camice a scacchi e i foulard esistenzialisti (!?). Dura pochissimo e finisce a botte per poi trasformarsi in una sfida di abilità che durerà anni. La contaminazione è però avvenuta e proseguirà nei luoghi intermedi tra il centro storico e il Vigentino. Al cine-teatro Carcano21, alla crocetta tra Corso di Porta Romana e il Vigentino, dove si fa avanspettacolo, al cinema Lux e Minerva (sempre due film 100 lire) dove si rimane dentro quattro, cinque ore e le compagnie entrando si fanno riconoscere con i più diversi segnali sonori; alla paninoteca di via Quadronno, la prima della città, dove si dice vengano fatti i panini con prosciutto di scimmia, nella sale biliardo con storiche sfide a stecca e a boccette e, per i “politicizzati”, all’Osteria dell’Oca d’Oro in Via Lentasio22. Ma la contaminazione non è sempre pacifica. Soprattutto nelle balere che furono costrette a dedicare serate o spazi domenicali ai nuovi balli. Qui il contrasto nasceva ovviamente per il problema del controllo sulle ragazze del quartiere. Quelle del proprio erano naturalmente intoccabili per coloro che venivano da altre zone e il meccanismo era quindi rovesciabile all’infinito. Con il crollo del microsistema sociale gravitante sulla via Larga (di cui parlerò più avanti) il Vigentino-Romana tornerà lentamente alla quotidianità operaia e popolare delle origini. Rimarrà nella storia cittadina soprattutto per merito della sua componente marginale ed extralegale. Quella della “Porta Romana bella dove ci stanno le ragazzine che te la danno e, ovviamente, prima la buona sera e poi la mano”.

  1. Un mix di grappa e menta che veniva così servito per aggirare il divieto mattutino di vendere alcolici agli operai. Politicamente si chiamava anche “sottvos” (sottovoce) per affinità con la famosa ambigua “doppia linea” del Pci (prendiamo il potere con le elezioni ma poi “col piffero” che lo restituiamo oppure “rispettiamo le regole democratiche ma intanto prepariamoci ad abbattere la borghesia”).
  2. Il “liscio ambrosiano” si differenzia da quello classico perché è tendenzialmente “figurato”. Questa variante – che tende a separare i corpi – può essere addebitata sia alla rigida morale operaia che alle tradizioni tolleranti ma piuttosto rigide della curia milanese. D’altronde Calvino è a pochi passi oltre le Alpi del confine comasco.
  3. Quello dei locali di avanspettacolo (che affiancavano cioè al film uno spettacolo di varietà con comici, ballerine, arte varia) è un autentico pezzo di storia popolare. Erano frequentatissimi tra urla, battute, schiamazzi (proprio come li ha rappresentati Fellini nella sequenza sull’Ambra Jovinelli di Roma), ma erano anche un severo apprendistato per gli artisti del varietà. I maggiori comici italiani (Sordi, Totò, Tognazzi, Chiari, ecc.) si sono formati così. Il Carcano è quello delle canzoni di Jannacci “Veronica” “con lei con c’era il rischio del platonico, al Carcano… in pé”.
  4. Era una grande osteria e contemporaneamente una sezione del Pci. Gestita dal gigantesco Pomé, pugilatore e appassionato d’arte, che disseminava le pareti di riproduzioni di Picasso e di poesie di Nicolas Guillen.

(Milano istruzioni per l’uso, in Gisella Bassanini, Carlo Braga, Leonardo Cascitelli et al., Il discorso dei luoghi. Genesi e avventure dell’ordine moderno, a cura di Ida Faré, Liguori, Napoli, 1992)