L’uomo che amava troppo – parte 1

Mauro (pseudonimo di Primo Moroni) in Marisa Rusconi, Amore plurale maschile, Marsilio, Venezia , 1995. (Prima edizione Rizzoli 1990)

Questa è la storia di Mauro che ha cinquantatré anni e fa il libraio.

Sono cresciuto a Milano in mezzo a compagnie di strada, quindi compagnie fortemente maschili. Negli anni Cinquanta ero un adolescente che stava quasi esclusivamente con altri adolescenti maschi; avevamo una grandissima ignoranza del corpo femminile e di tutto ciò che riguardava la femminilità; la conoscenza che ostentavamo era solo da caserma.

L’educazione sessuale della mia generazione si è svolta nelle case di tolleranza. Il giorno del diciottesimo compleanno dovevi fare il giro delle sette chiese – come si diceva allora – e gli amici ti pagavano sette marchette. Bisognava dare questa prestazione – quasi impossibile -, però, almeno, fingere di stare al gioco perché tutti gli amici del bar ti accompagnavano: era questa l’iniziazione all’amore, il grande avvenimento che sanciva l’ingresso nel mondo degli adulti.

Sono salito sette volte in sette diverse case di tolleranza e sono ridisceso sette volte senza neppure toccare una donna perché mi aveva preso un’angoscia tremenda. Però io non facevo testo, anche perché ero innamorato di una ragazza. Sono sempre stato un romantico. Anche in seguito, non sono mai riuscito a fare l’amore con una prostituta.

Ma nei casini si andava comunque, e la prima cosa che ci spingeva era la curiosità: nessuno di noi aveva mai visto una donna nuda. I giornaletti e le pellicole pornografiche di oggi sono rozzi, però noi non avevamo neppure questo. Una volta – quando ancora non capivamo niente di films – andammo in una cineteca a vedere Estasi, perché qualcuno lo aveva definito “eccitante”; e lì vidi infatti il primo nudo della mia vita. Ma nelle case di tolleranza le donne nude erano in carne ed ossa.

Un altro modo per guardare il corpo femminile richiedeva addirittura il sotterfugio. Io e i miei amici abitavamo in un quartiere molto popolare, vicino al Teatro Lirico. Le case di ringhiera non avevano i servizi e si andava a fare la doccia al Cobianchi, famoso bagno pubblico; le ragazze invece, di solito si arrangiavano in casa; così, chi aveva sorelle invitava gli altri a guardare, attraverso le persiane socchiuse, mentre si lavavano.

Una deprivazione totale del corpo femminile e dei suoi misteri; anche se, apparentemente, nei discorsi al bar, sembrava che tutti fossero superesperti. In realtà, i più grandi insegnavano ai più piccoli perfino come si bacia. Una cultura, anche, che creava un dispositivo chiuso, proibizionista, moralisticamente forte, molto maschile, con una grande angoscia nei confronti dell’omosessualità. Le nostre coetanee, nel nostro ambiente, naturalmente non facevano l’amore. Negli anni Cinquanta per una ragazza arrivare vergine al matrimonio era ancora essenziale. Al massimo con loro ci si poteva spingere fino al petting. Ma anche in quello, quanta fatica. Prima di azzardarsi a mettere le mani sotto le gonne di una ragazza, si viveva una fortissima tensione, ci si armava di una grande audacia. E poi… quanta ignoranza!

Quando a vent’anni ho avuto un rapporto – ma non completo – con una venticinquenne, lei mi ha spiegato che esisteva – e a cosa serviva – questo “oggetto” misterioso, il clitoride, di cui ignoravo del tutto l’esistenza e la funzione; ricordo di essere rimasto lì ad ascoltare la mia partner come uno stupido perché nella nostra cultura da bar il piacere femminile era collegato esclusivamente all’idea della penetrazione.

Anche trovare giovani donne con cui soltanto “limonare” un po’ – come si diceva allora – non era facile. Le ragazze del quartiere, infatti, erano tutte sorelle dei tuoi amici e, perciò, intoccabili; nelle case di ringhiera tutti ti conoscevano, anche i genitori degli altri; tu nascevi e crescevi lì, eri sotto gli occhi di tutti, e un flirt con una coetanea non poteva che sfociare nel matrimonio. Dunque bisognava spingersi in un altro quartiere, dove le ragazze che incontravi erano probabilmente sorelle di altri soggetti ma almeno non facevano parte della tua compagnia.

Devo dire però che queste condizioni sfavorevoli ti costringevano a inventare e affinare nuove tecniche per fare la corte a una donna. A volte la corteggiavi per mesi e mesi senza nemmeno baciarla, quindi dovevi dimostrare qualche abilità per metterti in mostra nel gruppo. C’era il ballo, c’era chi sapeva parlare meglio o chi aveva la moto: dovevi, insomma, spettacolarizzare la tua persona per farti vedere dalle ragazze. Io, pensando di non avere particolari risorse, mi sono messo a fare il ballerino, e ho scoperto che era una soluzione brillante: finii col diventare molto richiesto nelle balere. In seguito, il ballerino lo feci per professione; ma all’inizio si trattava esclusivamente di uno strumento di comunicazione, un modo per entrare in contatto col mondo femminile.

Comunque, a un certo punto, quando si è trattato di trovare un lavoro per sopravvivere, il ballo mi è stato utilissimo. Perché bisogna dire che non avevo nessuna formazione intellettuale; anzi, nella prima adolescenza, gli insegnanti mi consideravano ritardato sul piano dello sviluppo mentale e gli psicologi consigliarono i miei genitori di mettermi in una scuola differenziale. Io ero convinto di non essere “diverso” e, in seguito, è stato per me motivo di orgoglio dimostrare che con la testa ci sapevo fare, e bene; ma, allora, questa sfiducia intorno a me – insieme alla mia reale voglia di vivere in strada – mi portò a smettere di studiare assai presto e ad andarmene di casa a quattordici anni.

Eccomi, dunque, intorno ai vent’anni ad accettare una scrittura come ballerino nella compagnia di rivista di Carlo Dapporto per lo spettacolo Giove in doppiopetto. Trovarmi nei camerini – ancora vergine – in mezzo a tutte quelle ballerine nude fu un’esperienza sconvolgente. Ricordo che il coreografo prima di andare in scena mi dava delle pastiglie al bromuro. I ballerini infatti sono costretti a portare il sospensorio, uno “strumento di tortura” che piega il pene, indispensabile quando indossi la calzamaglia o altri costumi attillati; ma se sotto il sospensorio hai un’erezione, la cosa è dolorosissima, ti si bloccano i muscoli, non puoi nemmeno ballare.

Tuttavia, a parte la possibilità di poter acquistare finalmente familiarità, almeno visiva, con il corpo femminile, la mia parentesi teatrale fu straordinaria per un’altra ragione: mi fece superare la paura nei confronti degli omosessuali e dell’omosessualità.

Nella compagnia su dodici ballerini ben nove erano gay: vivere con loro, in quella specie di comunità che si crea in ogni tournée, ha sdrammatizzato la questione, anche perché erano estremamente gentili e seduttivi, non in modo fastidioso. Anzi, ho avuto una storia con uno di loro, una vera relazione che è durata qualche mese – il tempo di una tournée – e che ha sconvolto tutti i rozzi schemi della mia cultura “da strada”. Per esempio, l’idea che si può avere un rapporto con un uomo restando maschi se si svolge solo un ruolo attivo, mentre se c’è uno scambio è una reciprocità di ruoli, allora si è “irrimediabilmente” gay.

All’inizio di questa relazione con il ballerino, io vivevo dei sensi di angoscia e di colpa terribili, non solo a causa dell’ambiente maschilista da cui provenivo, ma anche per l’educazione cattolica che avevo ricevuto, soprattutto da parte della mia cattolicissima madre.

Tuttavia, quasi mio malgrado, dovevo riconoscere che era molto piacevole fare l’amore con un uomo, bello, esperto, dolce, che mi insegnava anche a essere dolce; potrei dire che mi trasmetteva una serie di variazioni sul tema della dolcezza a me del tutto sconosciute. Questo rapporto ha avuto per me una singolare incidenza come percezione corporea e come atteggiamento nell’uso del proprio corpo e di quello del partner; percezione e atteggiamento che mi hanno poi sempre accompagnato nel modo di fare l’amore con le donne, e che le donne hanno sempre trovato molto “giusti” per loro. Paradossalmente, dunque, io devo all’unica relazione omosessuale della mia vita delle consapevolezze e acquisizioni che si sono rivelate importantissime per gli altri miei amori.

Quanto all’angoscia che si era mescolata al piacere di quell’esperienza “diversa” sono riuscito a riassorbirla anche attraverso le letture a cui mi dedicai nei mesi successivi.

Era il periodo della moda dei libri sull’esistenzialismo; io leggevo come un matto per imparare, e perché mi piaceva, ma anche per cercare di capire e di riflettere sul mio vissuto – del resto, ho sempre cercato conferma della mia identità nelle cose scritte e le cose scritte mi hanno dato emozioni tanto più intense quanto più corrispondevano al vissuto. Questo percorso di lettura mi ha molto tranquillizzato, portandomi alla conclusione che l’erotismo omosessuale è una delle sfere possibili della sessualità, anche se, avendo fino a quel momento scarsissime esperienze con il “femminile”, la mia situazione erotica mi sembrava squilibrata.

Finita la tournée con lo spettacolo di Dapporto, ho dato un addio alla mia breve carriera sul palcoscenico: mi ero innamorato di Arianna, una studentessa, e se volevo fidanzarmi con lei non potevo certo continuare a fare il ballerino di rivista. Lei era figlia di un piccolo imprenditore, io di operai. Anche questa fu una grande scommessa. Per noi figli di proletari era una sfida andare con una studentessa. Sono stato due anni con Arianna, senza mai fare l’amore con lei perché, naturalmente, voleva arrivare vergine al matrimonio. Ma questo matrimonio non si sarebbe mai celebrato. Eppure ho cercato in tutti i modi di rendermi “degno” di lei. Mi sono guadagnato da vivere facendo il cameriere in un ristorante; ho perfino frequentato la Scuola Alberghiera di Stresa per diventare un chef di rango. Ma, nell’Italia degli anni Cinquanta, la figlia di un industriale, se pure piccolo, non sposava un cameriere, se pure di rango.

I genitori di Arianna avevano grandi ambizioni per lei e Arianna subiva la loro influenza o, forse, si convinse che le sue esigenze erano davvero diverse. Comunque, il ruolo della famiglia allora era molto pesante.

Risale però allo stesso periodo la mia decisione di studiare, da autodidatta. Nello studio mi buttai a corpo morto, con scelte disordinate, ma con una volontà quasi feroce. Volevo riappropriarmi del sapere di cui ero stato privato; volevo soprattutto, farmi una cultura diversa da quella che la scuola avrebbe potuto darmi.

Intanto era incominciato anche il mio impegno politico: mi ero iscritto al Pci, che allora era una scuola rigida, stalinista, ma una grande scuola. Nel tempo libero dai miei strani mestieri – o dalla mia vita da balordo – frequentavo anche i corsi di Mario Spinella, che consideravo un maestro, o andavo alla Casa della Cultura dove c’erano dibattiti di cui in principio non capivo niente; poi, a furia di leggere libri e di affrontare ogni problema da diversi punti di vista, ho cominciato a districare il bandolo della matassa. Il mio appassionato, quasi disumano, autodidattismo era ammorbidito dall’incontro con personaggi carismatici, come Spinella, appunto, o Rossana Rossanda, che si sedeva lì, alla Casa della Cultura, e raccontava storie incredibili su tutto, ma mi sembrava anche molto seduttiva. Io la vedevo come un modello femminile un po’ irraggiungibile e ne ero completamente affascinato.

Per tornare ad Arianna, l’impossibilità di sposarla è stata la causa di un grande dolore. Probabilmente, alla sofferenza dell’abbandono si aggiungeva quella dello scacco sociale: il mio orgoglio era doppiamente ferito. Di certo, ricordo un grave senso di perdita per questo amore che era rimasto come sospeso, dimezzato e incompleto; io con Arianna non volevo solo fare l’amore; con lei progettavo di vivere, per lei la mia esistenza di sbandato poteva cambiare, stava già cambiando.

Dopo, ho passato tre, quattro anni da disperato, facendo dieci mestieri diversi, facendo soprattutto il nottambulo e l’avventuriero. Mi esibivo come ballerino di rock-and-roll al Santa Tecla, un locale che allora era vagamente esistenzialista; avevo frequentazioni un po’ malavitose. In fondo, ero cresciuto in compagnie di balordi, bande di strada un po’ violente, un po’ spaccone, al limite della legalità… I miei propositi di diventare un bravo ragazzo, si erano dissolti con il dissolversi di Arianna.

Ma già gli anni Sessanta incalzavano. Molti comportamenti – maschili e femminili – stavano cambiando. Ci si sentiva immersi in un processo di mutazioni di cui era difficile, per il momento, cogliere il senso fino in fondo, ma che ti costringeva, comunque, a fare i conti con il mondo esterno. Non era ancora il ’68 ma un primo impulso verso una grande trasformazione.

È in questo scenario che ho conosciuto la seconda donna importante della mia vita: si chiamava Sibilla, aveva dieci anni più di me – che ne avevo ventisette – e una figlia di dodici. Viveva con un industriale quarantenne molto ricco che la adorava, al punto che, quando la decisione di Sibilla di lasciarlo per stare con me diventò irrevocabile, lui salì sulla sua Maserati e andò a sbattere contro un muro. Non si ammazzò – anche se a molti parve fosse questa la sua intenzione – ma restò paralizzato.

Probabilmente il fascino che esercitavo su Sibilla era basato, almeno in parte, su un equivoco: lei che aveva tutto dalla vita e una situazione molto tranquilla – pur non essendo sposata -, vedeva in me il tipo “irregolare”, abile in molti mestieri strampalati ma senza una vera professione, l’individuo notturno, un po’ zingaro e pieno di ombre.

Insomma il fascino della trasgressione; l’esatto opposto del suo uomo che era la rappresentazione precisa della ricca borghesia, con solidi principi, con grandi case, grandi macchine e un bellissimo panfilo.

Però, frequentandomi e incominciando ad amarmi, ha scoperto che io non ero solo quel personaggio vagamente “maledetto”: ha scoperto la mia folle passione per la lettura; tutte le mie indecisioni sul corpo femminile; tutta la mia confusione. O, almeno, per me oggi è gratificante pensare di esserle piaciuto più per le mie risorse particolari che venivano dal mio percorso segreto che non per la parte spettacolare-notturna della mia personalità.

Di certo mi ha spinto a studiare ancora, a valorizzare le mie qualità intellettuali e, anche organizzative. Mentre, sull’altro versante, ha capito – e sciolto – tutti i miei nodi più intimi: la mia inesperienza della sfera del femminile; la mia ignoranza sulla psicologia, affettività, e anche sessualità delle donne.

Abbiamo vissuto insieme cinque anni. Una storia importantissima, che mi ha dato una duplice parallela scoperta. Da una parte, la possibilità di realizzarmi come individuo, sul piano professionale; infatti ero entrato in una grande casa editrice con un posto di semplice venditore, e lei mi ha convinto che potevo fare molto di più; in poco tempo sono diventato assistente alla direzione, poi sono passato a un altro grosso gruppo editoriale con il ruolo di direttore generale delle vendite. Una carriera fulminante, sempre guidato – letteralmente – da Sibilla.

D’altra parte, io da lei ho ricevuto una straordinaria educazione sia sentimentale che erotica.

Sono stati, insomma, anni di grande gratificazione, perché, contemporaneamente, io uscivo dalla mia indeterminatezza di identità affettiva-sessuale e da quella del mio ruolo sociale. Ero molto considerato nel mio lavoro – un lavoro che, tra l’altro, mi piaceva – mentre, nel privato, potevo contare su una donna intelligente, indipendente (lei non era certo il tipo dell’angelo del focolare), che mi dava una grande sicurezza sentimentale e sessuale. Insieme abbiamo vissuto un’intimità molto profonda, un’intesa perfetta sul piano della corporeità e dell’eros, una grande sperimentazione di conoscenze. Ma sono io ad avere imparato quasi tutto da lei.

Questa storia si è rotta nel ’67, come, un po’ più tardi, parecchie storie di gente intorno a me. Di nuovo – come già avevo fatto altre volte e come mi sarebbe capitato ancora – ho dato una svolta alla mia vita. Ma ciò accadde attraverso una serie di strappi, non solo quello che mi staccò da Sibilla. Già nel ’63 ero uscito dal Partito Comunista, incazzato su una serie di questioni ideologiche, e avevo fatto una scelta privata, sia nella vita con Sibilla, sia sul piano professionale. Adesso, alla vigilia del ’68, anche se nessuno ancora prevedeva che sarebbe esploso, mi sentivo attirato da una serie di fermenti che si accendevano qua e là, soprattutto tra i giovani; le sirene della politica avevano ricominciato a cantare nelle mie orecchie.

Frequentavo i ragazzi di Mondo Beat, erano loro i miei nuovi amici, anche se la porta dei trent’anni si era già spalancata per me. Ma la contraddizione non mi sfuggiva. Cosa avrei dovuto fare? Dottor Jekyll e Mister Hyde? Di giorno, il dirigente con la segretaria e la macchina con autista; di sera, tolto il doppiopetto e indossati i panni del ragazzotto ribelle, salire fino agli abbaini di via San Maurilio dove si erano installate le prime comuni beat?

Fu la mia formazione politica a dettarmi la soluzione corretta: diedi le dimissioni, anche se ero diventato direttore da pochi mesi. Subito dopo iniziai una nuova attività: trovai un locale molto vasto – 1000 metri quadrati – proprio in via San Maurilio, e vi aprii un club dedicato al tempo libero. Mandai alcuni dei miei migliori venditori in giro per le strade a fermare i passanti per proporre di diventare soci di questo strano circolo. In quattro mesi avevamo tremilacento soci.

La mia convivenza con Sibilla, dunque, andò in pezzi per questa mia nuova scelta di vita; ma in parte anche per altre ragioni.

C’era, intento, il problema di Carlotta, sua figlia: all’inizio della nostra storia Carlotta era una bambina, adesso me la ritrovavo nelle sembianze di una splendida e disinibita diciassettenne, allieva del liceo artistico di Brera, che girava per casa seminuda. E non era neppure mia figlia. I nostri rapporti erano sempre stati sereni e cordiali ma io con lei non avevo mai fatto il padre. Insomma, questa intimità con Carlotta all’interno della casa in cui vivevo con Sibilla, questo suo comportamento, di certo innocente, ma troppo disinvolto, mi metteva in grande imbarazzo. Non so dire se la desiderassi, probabilmente sì, anche se non osavo neppure confessarlo a me stesso. Vivevo nella strana presunzione e insieme nella paura che la ragazzina si potesse innamorare di me. Un bel groviglio di contraddizioni. Di certo non sopportavo più questa situazione.

Alla fine ho deciso di parlarne a sua madre; e lì è scoppiato il casino.

Poi Sibilla è rimasta incinta. Lei voleva il bambino. Io no. Le dissi che sentivo il bisogno di stare solo per un certo periodo, per una verifica. “Qui non c’è nulla da verificare”, rispose lei. E aveva ragione.

Praticamente scappai. Mi comportai malissimo. La rividi una volta sola, dopo alcuni mesi. Venne al club a trovarmi; così almeno pensai, quando comparve sulla porta. Ma il suo scopo non era una visita amichevole. Nel frattempo era diventata una campionessa di tiro a segno; mi puntò contro una rivoltella. Voleva uccidermi. E, forse, non lo fece solo per un frammento, una frazione di secondo di indecisione, un brandello di benevolenza (verso se stessa più che verso di me); una scheggia di ragionevolezza. Mi lasciò morto, comunque, di paura. Ma, soprattutto, per molti anni restai in dissenso con me stesso per aver causato un dolore e un dramma – anche quelli di dover rinunciare al bambino – proprio alla persona che mi aveva dato moltissimo.

Nel corso del tempo, ho riflettuto a lungo sul mio eterno rifiuto e sulla mia angoscia nei confronti della paternità che, prima, accettavo così com’erano, senza neppure cercare di analizzarli. E anche se non serve a darmi delle giustificazioni per il mio orribile comportamento nei confronti di Sibilla e del nostro bambino, tuttavia mi ha almeno aiutato a fare chiarezza in me stesso. Ho capito di avere, in qualche punto dell’inconscio, una questione irrisolta con i miei genitori, una questione nata quando ero piccolo e durata a lungo, perché a quattordici anni me ne sono andato da casa e, poi fino a ventisei, non li ho più visti. Avevo proprio chiuso con loro. Neanche una telefonata, un “come stai?”. Avevo dentro un odio terribile. Anche il mio rifiuto di studiare, fino al punto di essere bollato come “ritardato mentale”, era una vendetta nei confronti dell’oppressione famigliare che mi stava uccidendo.

In realtà mio padre era molto buono ma inesistente come carattere, non osava mai opporsi a mia madre che, invece, era assai violenta. Picchiava spesso sia me che mia sorella. I vicini l’hanno denunciata più volte per maltrattamenti.

Col tempo sono riuscito a ricostruire particolari della sua vita che possono spiegare molte cose. Lei era una contadina toscana, come contadino era mio padre, che aveva sposato giovanissima. Sono venuti a Milano fra grandi difficoltà; casa di ringhiera, pochi soldi, momenti drammatici. Poi la guerra. Per sfamare me e mia sorella, lei si faceva caricare sui camions organizzati da quelli della borsa nera e, insieme ad altre donne proletarie, andava nella Bassa Lodigiana, per tirar su un po’ di olio o di riso. Spesso, queste trasferte venivano sorprese dai bombardamenti. Una volta, nel ’44, il camion su cui viaggiava, è stato mitragliato: mia madre si è lanciata a terra, battendo la testa contro il marciapiede. Nessuno a pensato a curarla, e lei per molti anni ha sofferto di emicranie spaventose che la facevano diventare violenta.

Noi non eravamo in grado di capire il suo dramma. E io non potevo che odiarla per la sua durezza.

Oggi sono arrivato alla conclusione che questo background ha innescato in me un meccanismo di blocco di fronte alla responsabilità di fare un figlio. Lo dico adesso, fino a dieci anni fa non sarei stato in grado di decifrare questi comportamenti.