Come vivere e non perché vivere.

Secondo contributo in direzione della 3a puntata del ciclo La fine dell’uomo, a proposito di “Corpi mutanti”.

di Giuliano Spagnul

“Non è sempre solo tuttavia. Quando sopraggiungono le

lunghe notti invernali, e i lupi inseguono la selvaggina fino

nelle valli più basse, lo si può vedere correre alla testa del

branco, nel pallido chiarore della luna, o nella tremolante

luce dell’aurora boreale, e balzare stagliandosi gigantesco

sopra i suoi compagni, con la grande gola che mugola,

mentre egli intona il canto delle più giovani epoche del

mondo, il canto del branco.”

Jack London, Il richiamo della foresta

“…il viaggio, l’esistere sono di per sé sufficienti. Come vivere è il problema e non perché si vive.” Se un senso di colpa ci attanaglia oggi, in quest’alba del nuovo millennio, probabilmente non riguarda più la nostra cacciata dall’Eden bensì ci riporta a una data ben più vicina a noi di quella biblica di seimila anni orsono, cioè a quei quasi due secoli che ci dividono dal lavoro di quell’uomo dalla folta barba Charles Darwin.

Quel vecchio signore che pur andando in chiesa tutte le domeniche ripagò il buon dio della sua stessa moneta cacciandolo fuori, in un sol colpo, dalla storia dell’uomo e del mondo della natura tutta. Se si può vedere la storia dell’uomo come un processo di addomesticazione di sé medesimo e dell’ambiente che lo circonda, e nient’altro, ciò che in questo processo si dovrà, a tutti i costi, celare è “la grande paura” determinata dal fatto di non voler “dire che il senso non c’è”. Quell’orizzonte che anelava dare una risposta al perché del vivere, a cui si sono votati secoli di storia e sacrificate innumerevoli vite, semplicemente non c’è, è stato spazzato via, derubricato ad anticaglia come tutte le utopie ottocentesche che ne erano derivate. Non più il perché allora ma il come. Ed è in questo percorso di mutazioni, orfane di un senso che le giustifichi nella trascendenza del loro essere semplicemente vita che vive e che muta perché deve vivere, che Tiziana Villani ci conduce tramite il suo ultimo libro Corpi mutanti. Tecnologie della selezione umana e del vivente  (Manifestolibri, 2018). In questo breve, ma intenso testo, si cercano di delineare gli spazi delle possibili mutazioni, spazi coniugati al singolare: geografia (che ricorre come attacco a ogni titolo dei sei capitoli) che si configura come incubatrice di trasformazione dell’istinto, nel rifiuto radicale di percepirlo ancora come datità. Oppure dove nell’incontro dell’animale coll’uomo si sfata il pericoloso mito dell’uomo nuovo, quel processo di “purificazione” che nel suo radicale reinventarsi liquida necessariamente e violentemente tutto il passato. E ognuno di questi capitoli in cui questa geografia singolare (al singolare) ricorre, è anticipato da una breve narrazione in cui la specie che per prima fu dall’uomo addomesticata: il lupo diventato ora cane, racconta di sé stessa. Il proprio processo di addomesticazione, il branco che diventa muta e il proprio percorso di liberazione possibile in cui non ritornare lupo ma inventarsi altro, insieme ad altri, come muta mutante. Come riuscire in ciò? Occorre innanzitutto “liberarsi dalle catene della colpa e dell’obbedienza” riconoscendo e ripudiando “ogni meccanismo binario: obbedienza-sovversione, natura-cultura, uomo-donna, dominanti-dominati. A questa spirale perversa e fondamentalmente fasulla occorre rispondere con il movimento metamorfico delle esistenze, movimento continuo e per questo, oggetto di una caccia senza tregua. In questo movimento di eccedenza si cessa di temere il disordine in cui si declina l’esistere. Il principio di catalogazione e controllo è il motivo che spinge le eccedenze mutanti a cambiare le regole del gioco, è questo il lavoro che occorre condurre a partire dai margini.” (1) Le sollecitazioni che questo libro offre sono innumerevoli (2) e potremmo continuare a giocare sfilando, cucendo, tessendo associazioni diverse, ma per non correre il rischio di divagare troppo mi vorrei soffermare solamente su due punti ancora. Il primo riguarda quel tentativo di non “temere il disordine”. Uno schiaffo alla mitologia di una pretesa natura armonica, all’idea che alla vita necessiti una sorta di equilibrato ordine pacificatore di tutti i conflitti. È invece il caos, e va riaffermato con forza, “la dimensione in cui si diviene”. Perché “il caos comprende la molteplicità e gli eventi, il possibile e quanto accade”. E, citando Simondon, continua affermando che “l’essere non ha unità di identità, quello dello stato stabile in cui nessuna trasformazione è possibile; l’essere possiede un’unità trasduttiva, ossia può sfasarsi rispetto a sé medesimo, oltrepassarsi…” (3) E da qui, infine, il secondo punto: l’ibrido, quell’apertura, frattura “verso le possibili modalità del divenire”, senza il quale non c’è possibilità di generare il nuovo, e senza il nuovo la vita si ferma, si ripiega su sé stessa e, inevitabilmente, si spegne.

Nota 1: Ricordo qui la grande antropologa Clara Gallini che sui meccanismi binari scriveva: “al binomio ragione e follia, o ragione-meraviglioso rappresenta soltanto una parte di un più vasto sistema classificatorio, che assieme alla ragione colloca il maschio, l’individuo, l’adulto, il bianco, il borghese, l’eterosessuale, il massimo profitto col minimo dispendio e assegna agli stessi territori della follia l’animale, la donna, le masse, il bambino, il diverso di pelle, il proletario, l’omosessuale e anche il giocare e il sognare tutti i sogni possibili. Classificazione binaria, si rappresenta come  sistema di opposizioni date per natura e gerarchicamente disposte (di qui anche il suo razzismo e sessismo). E nel suo interno troverebbero collocazione ruoli e azioni dei soggetti sociali.” C. Gallini, I territori del meraviglioso in Nostos n. 2 dicembre 2017 p. 72 http://rivista.ernestodemartino.it/index.php/nostos/article/view/28/40

Nota 2: Sono state proprio queste sollecitazioni a farmi riflettere sul carattere regressivo di un film di Alex Garland Annientamento (2018) sul tema della mutazione https://moroniecaronia.noblogs.org/annientamento-per-senso-di-colpa-e-vergogna/

Nota 3: Gilbert Simondon, L’individuazione psichica e collettiva, Derive Approdi, 2001