Alphaville

di Giuliano Spagnul

“All’inizio, non si sa chi sia questo personaggio, questo Eddie Costantine, poi arriva, si scoprono delle cose di lui solo attraverso i discorsi della gente, proprio come in un western (…) c’è uno che arriva, apre le porte di un soloon, va al banco, voglio dire: è sempre così, strada facendo si fa l’andatura. (…) lui viene a fare un’inchiesta e quindi riparte.” (1) Cosa scopre questa inchiesta? Molte cose bizzarre che a prima vista sembrano delineare una sorta di mondo distopico in cui diverse forme di potere si sovrappongono, tra momenti di violenza pura e momenti di controllo e persuasione e forme di un più sofisticato asservimento biopolitico.

Qui avvengono cerimonie con esecuzioni esemplari e le persone portano un marchio che ne identifica l’appartenenza a un potere superiore. Ma vi è anche un controllo capillare della società che permette di intervenire in tempo su quei comportamenti fuori norma senza così dover usare per forza lo strumento della pura repressione violenta. E infine il potere sulla vita stessa, quel potere senza il quale la stessa possibilità di esistenza dei singoli individui non viene più assicurata: il potere totale sui corpi e sulle menti. Non è Agente Lemmy Caution: Missione Alphaville di Jean Luc Godard un film contro le macchine, né un film che ci parla della libertà contro il potere. Lemmy Caution non proviene dai paesi liberi, non è il paladino dei diritti dell’uomo, difensore della libertà e della democrazia. Non proviene da nessun posto altro, da nessun fuori di Alphaville, piuttosto dai suoi stessi margini, da quelle periferie in cui “il residuo, l’irriducibile, l’inclassificabile, l’inassimilabile” (2) hanno ancora una possibilità di germinare. Lemmy Caution è un black bloc, è un gilet jaune che prende a pugni gli sbirri. È una battaglia muscolare, dove la posta in gioco non è tanto la libertà, quella astratta, ideale, quanto piuttosto il libero gioco delle parole. Il linguaggio con le sue eccedenze, il suo sovrappiù di senso che va oltre la pura comunicazione. È il mondo razionalizzato e algoritmico l’avversario di questo “Tarzan contro IBM” (3). Ma non c’è nessun altro mondo libero ad attendere il ritorno del nostro eroe. Insieme alla principessa, novella Euridice che deve resistere alla tentazione di voltarsi indietro, il mondo in cui egli torna è quello di sempre, con le sue ingiustizie e soprusi di classe. Ma è quello anche in cui sono ancora possibili i conflitti e in cui la tirannia della ragione può essere ancora contrastata e la lotta è quel respiro di vita in cui nessuno può dirti come e in che modo essere libero. L’oltre mezzo secolo che ci separa da questo film, che precede di tre anni l’immaginazione al potere del 1968, non hanno scalfito minimamente la sua forza dirompente antiprofetica. Non mondo futuro, non anticipazione di qualcosa a venire ma, con le parole dello stesso Godard: “sul futuro, nella misura in cui esso diventa continuamente presente. È un film insomma sulla presenza del futuro… Io non ho immaginato, come aveva fatto Wells per esempio, la società tra vent’anni. Al contrario io racconto la storia di un uomo di vent’anni fa che scopre il mondo attuale e se ne stupisce… intenzionalmente ho voluto che lo spettatore riconoscesse i Lungosenna e i grandi Boulevards perché gli uomini d’oggi vivono e anticipano il loro futuro con il loro comportamento. (4) Nelle pratiche del quotidiano noi viviamo e consumiamo il nostro futuro nell’illusione che questo non si stia verificando qui ed ora, ma che sia ben distante da noi e che in ultima analisi, tutto sommato, possa anche non riguardarci. Grazie Godard, grazie duro e spigoloso Eddie Costantine resistente mediocre eroe dell’umanità.

 

Nota 1: Jean Luc Godard, Introduzione alla vera storia del cinema, Editori Riuniti, Roma 1982, p. 94.

Nota 2: Michel Foucault, Il potere psichiatrico, Feltrinelli, UE 2010, p. 62

Nota 3: Titolo a cui pensava Godard all’inizio.

Nota 4: Le Monde 6 giugno 1965, dichiarazioni di J. L. Godard.