Scomodo a tutti, forse anche a se stesso: Primo Moroni

Primo Moroni è stato sempre utile a tutti, ricercato per consigli (ricordo un pranzo in trattoria con un compagno ferroviere che si voleva licenziare e trasferire a Firenze e aprire una libreria, e domande, e dubbi, e…); per “interviste impossibili” come quella di Ida Faré che lo interroga sul femminismo;1 per parlare, parlare: quanta cultura orale è passata dentro quella libreria Calusca, luogo instabile dalla collocazione precaria che si è spostato in lungo e in largo per il C.so di Porta Ticinese per stabilirsi poi definitivamente nel posto più incerto della geografia metropolitana: un centro sociale occupato.2  Ma è stato scomodo Primo, anche per quel suo attraversare mondi, luoghi, esperienze affatto diverse tra loro. Scomodo a se stesso? È lecito crederlo leggendo la sua autobiografia3 e le varie altre riflessioni autobiografiche sparse, qua e là, nei suoi vari interventi scritti o registrati dal vivo. Non solo l’irrequietezza, la ribellione istintiva (quella dei vari Franti della storia) verso un fuori percepito come irriducibilmente ostile nella sua ferrea logica disciplinare, ma anche verso un interno, quell’inner space così crudamente analizzato da uno dei suoi scrittori più amati: James G. Ballard. Ne fa fede la lunga lista di lavori e esperienze, così diverse, che elenca, senza raccordarle, ma rifiutandosi di immaginarle in una logica di progressiva maturazione, per quanto ecclettica, personale. Primo Moroni nasce ribelle “in una famiglia di emigrati interni, contadini della Val Di Nievole, che come tutti sanno fanno prima i camerieri e poi finiscono per aprire una trattoria o un ristorante a Milano.”4 Poteva essere anche il suo destino ma non lo è stato. Nonostante l’attività di cameriere, anzi di chef de rang, cioè quel qualcosa di più che presupponeva una carriera in fieri; nonostante la naturale predisposizione all’imprenditoria che mostrava nell’esercizio dei suoi disparati mestieri, fino all’apertura di un locale notturno di un certo successo;5  nonostante tutto Primo finirà la propria carriera e la propria vita in un luogo occupato, abitato da strani umani, ancora diversi da tutti quelli conosciuti in precedenza: fossero stati operai militanti del P.C.I., malavitosi e prostitute, giornalisti e intellettuali, borghesi o sottoproletari, artisti e tanti altri ancora. Occorrerebbe stendere tante biografie per ognuna delle esperienze di vita di Primo, ma difficilmente si riuscirebbe a rendere efficacemente il senso unitario che questa vita è riuscita comunque a dimostrare di avere per chiunque sia in grado di leggerla al di là delle singolarità che essa mostra a prima vista. Per cercare di farlo occorre porsi alcune domande, porre problemi invece che evitarli, ad esempio chiedendo conto a quella domanda implicita da cui eravamo partiti: ‘poteva essere anche il suo destino ma non lo è stato.’ Perché la vita di un uomo cambi, un destino ‘segnato’ (probabile) non si verifichi e si apra un altro possibile (per quanto meno probabile) occorre che succeda qualcosa, che alcuni eventi accadano e che altri, di conseguenza, si mettano in moto. Durante la scuola: “all’avviamento professionale, dove allora si andava a scuola in tuta  e si faceva lima e tornio. Poi lì ho dato una martellata a un professore e mi hanno espulso.”6 È un resoconto scarno, raccolto da Cesare Bermani nel 1982. Quattordici anni dopo, in un intervento registrato, ritorna sull’episodio: “in un corso di avviamento professionale e si faceva il capolavoro. Capolavoro era un pezzetto di ferro che bisognava limare e poi farlo diventare perfetto in tutte le sue parti col calibro, col compasso … ho lavorato tre mesi poi l’ho portato al professore, lui ha detto: ‘perfetto, ti do otto’, poi ha dato tre martellate sopra questo pezzo di ferro lavorato e ha detto ‘ricomincia da capo’. A me è sembrata una cosa di disciplinamento, e ho dato una martellata sulla mano del maestro e gli ho fracassato la mano perché mi sembrava insopportabile questo non rispetto per un lavoro di tre mesi che avevo fatto, ma che cazzo, io ho fatto questo lavoro qua, due volte l’ho sbagliato alla fine la terza ‘me l’hai fatto perfettamente’ e tu me lo spacchi. E ho capito però in quel momento, ho avuto un’intuizione, che mi sembrava che un disciplinamento eccessivo all’ideologia produttiva fosse una cosa insopportabile perché questo voleva dire imparare a sopportare eccessivamente la figura del caporeparto e da lì è iniziata la mia crisi con il Partito Comunista, una crisi probabilmente sull’ideologia del lavoro, intendo dire.”7 Più avanti ricorda ancora l’intervento di Pajetta a Genova nel 1960 per calmare gli animi di quei giovani delle magliette a strisce “quindi non solo il fatto del parallelepipedo di ferro che mi ha messo un po’ in crisi, mi sembrava che ci fosse… quindi sono diventato estremista.” Forse, chissà? Se Pajetta non avesse detto ‘abbiamo vinto, tornate a casa’, se il professore avesse detto ‘bravo, conserva questo pezzo di ferro con orgoglio, il prossimo non sarà solo perfetto, ma avrà anche una funzione, uno scopo, questo è solo l’inizio’, chissà, non è detto, ma il Primo che abbiamo conosciuto forse non ci sarebbe mai stato. Il parallelepipedo forse ha solo un valore allegorico, ma, appunto, in quanto allegoria mostra efficacemente che i destini si compiono, si modificano grazie all’accadere di eventi esterni, casuali ma significativi nel loro verificarsi in un determinato spazio/tempo piuttosto che in un altro. Il cameriere Primo, con la sua personale storia alle spalle, nel suo lavoro corporeo, nel muoversi tra i tavoli, incontra, ascolta, discute coi clienti intellettuali, che discutono, mangiano, stanno in relazione con gli altri. Sono pratiche diverse che si agglutinano nell’esperienza di Primo non per il suo essere spugna di saperi che lo circondano (come sarebbe facile credere) ma perché sono vissute da lui come altre pratiche, semplicemente estranee ma non superiori, da mettere a confronto e possibilmente assorbire. Il rischio, quello di assorbire per diventare simile, per fare, anche solo immaginariamente, il salto di classe, è da lui evitato da una consapevolezza forse dovuta proprio al sapere/potere che quel parallelepipedo ha continuato a emanare per tutto l’arco della sua vita. Come la scimmia/ominide che grazie alla stele/parallelepipedo, nel 2001 di Kubrick, apprende quel di più che si può fare con un osso: distruggere, uccidere, Primo apprende, da quel pezzo di ferro, quel di più che gli serve per ribellarsi. Per la prima volta vede ciò che, pur stando in evidenza, non era comunque visibile. Il suo corpo ha limato quel pezzo di ferro per tre lunghi mesi, il gesto distruttivo ne ha reso esplicito il significato e lo scopo ultimo, “quindi sono diventato estremista.” Leggendo ‘le vite’ di Primo è inevitabile rendersi conto che il sapere incorporato è l’unico in grado di opporre alla forza del potere che domina, la propria forza di potere che resiste. Un sapere che non si incorpora scivola via, può fare tutt’al più bella mostra di se, incanta ma non trasforma. Ma ancora di più, come ricorda il suo alter ego “Mauro” nel libro di confessioni maschili raccolte dalla giornalista Marisa Rusconi: “io leggevo come un matto per imparare, e perché mi piaceva, ma anche per cercare di capire e riflettere sul mio vissuto – del resto, ho sempre cercato conferma della mia identità nelle cose scritte e le cose scritte mi hanno dato emozioni tanto più intense quanto più corrispondevano al vissuto.”8 Credo che proprio questa sia stata la regola aurea della crescita intellettuale di un proletario che da ragazzo era stato stigmatizzato da tutti gli adulti come ritardato. Ciò che è rapportabile a un vissuto ha la possibilità di creare quella sorta di complicità che rende le nozioni, anche le più difficili e complesse, comprensibili senza doverle semplificare e quindi banalizzare. Tutto questo rapportare storia vissuta con i discorsi, le teorie e i concetti dei personaggi “che sanno”, questo lavorio di verifica, di costante rapporto con l’esempio concreto ha costituito per Primo la possibilità di trasformare gli eventi critici della propria vita in “strumento di conoscenza di me stesso quasi definitivo, nel senso che in qualche modo ero veramente cambiato.”9 E dal privato al pubblico, dal personale al politico, così che si possa: “sfumare leggermente, con dolcezza, con affettività e progressivamente le tinte della memoria, della nostalgia, dell’appartenenza, del conflitto precedente. Ridisegnarlo, deve dire morire. I rivoluzionari muoiono frequentemente di se stessi, il rivoluzionario è una persona incoerente, ha un obiettivo, ma è una persona che cambia, si trasforma in continuazione.”10 A vent’anni di distanza cos’ha ancora Primo da insegnarci? Molto! Oggi, forse, ancora più di ieri, qui nelle nostre città ipermoderne in cui la moderna propensione urbana, nella sua funzione disciplinare e alienata, di “costringere” alla vita privata,11 sembra perfettamente riuscita. Scavare dentro la storia e le parole di Primo (e lo faremo ancora) può aiutarci a “guadagnare tempo” per tentare nuovamente quel difficile compito di “organizzare l’inorganizzato” e continuare a “tessere relazioni anche nella sconfitta”12  per cercare di fare, tutti insieme, ancora una volta quella scalata al cielo o, meglio, far si che “il cielo sia finalmente caduto sulla terra”.

Giuliano Spagnul

Nota 1: https://archive.org/details/PrimoMoroniIdaFareMovimentodelleDonne

Nota 2: Centro Sociale CSOA Cox 18 https://cox18.noblogs.org/

Nota 3: Da Don Lisander alla Calusca. Autobiografia di primo Moroni (raccolta e redatta da Cesare Bermani), in Primo Maggio, Milano n.18, autunno-inverno 1982-83,  ristampato in Primo Maggio, numero speciale, marzo 2018 (scaricabile gratuitamente qui: http://www.fondazionemicheletti.eu/altronovecento/files/Primo-Maggio_Numero-speciale.pdf  )

Nota 4: Da “Don Lisander…”

Nota 5: “Dal finire del Sessantasette cominciava a muoversi sul serio qualcosa. Allora ho abbandonato quel lavoro da dirigente e ho aperto con la liquidazione un grande club, il Siosì club. E questo club da nome onomatopeico stava in mille metri quadri in un palazzo del Settecento in via San Maurillo che aveva dentro salotti, sala di lettura, bar e un piccolo ristorante. Partimmo con ottanta milioni di debiti. Da “Don Lisander…”

Nota 6: Da “Don Lisander…”

Nota 7: Intervento di Primo Moroni: Pescara 6 settembre 1996  http://www.maurizioacerbo.it/blogs/?p=168

Nota 8: in Marisa Rusconi, Amore plurale maschile, Rizzoli, Milano, 1990,  p. 49

Nota 9: idem p. 73

Nota 10: Intervento di Primo Moroni: Pescara 6 settembre 1996

Nota 11: Primo Moroni,  Milano istruzioni per l’uso, in Il discorso dei luoghi (a cura di Ida Faré), Liguori, Napoli, 1992, p. 318.

Nota 12: Benedetto Vecchi, Primo Moroni, il metodo politico di fare rete, in Alias, inserto settimanale de Il Manifesto, 31.3.2018, p. 2-3