Primo e Antonio

Cesare Bermani nella postfazione all’autobiografia di Primo Moroni (Primo Maggio n.18 autunno-inverno 1982, p. 27-37) parla della Libreria Calusca come un “luogo d’incontro e di azione, un crocevia della ‘diversità’, un ‘porto franco’ di dialogo rivoluzionario con tutto ciò che una grigia città di plastica e cemento condannava e/o cercava di recuperare alla logica della merce”. E su Primo aggiungeva: “da tutti Primo ha appreso e a tutti ha insegnato qualcosa, riuscendo spesso a cambiare cose e persone”, per finire definendolo lapidariamente come un “personaggio complesso, e anche per questo scomodo e poco capito”.

A vent’anni dalla sua scomparsa, la sua presenza, ancora scomoda e complessa e sempre poco capita, continua ad aleggiare ostinatamente su questa sempre più grigia città di plastica. Apprendere da Primo per cambiare noi (come persone) e le cose (come quella realtà che i più pretenderebbero immutabile e data una volta per tutte) vuol dire fare i conti con ciò che oggi è prioritario in quel terreno di scontro in cui si gioca la partita decisiva per la libertà, se non proprio per la sopravvivenza stessa, dell’essere umano: il corpo. Quel corpo che attraverso la scuola, il lavoro, il divertimento, lo scontro con altri corpi, l’amore con altri corpi… va a costruire quei luoghi di aggregazione, di resistenza e di alleanze che danno vita a ciò che siamo, come individui e come collettività. Questi corpi che per Primo si spostano continuamente dalle periferie al centro (del mondo o delle città poco importa), e che nei loro “percorsi di esplorazioni”, sono costantemente attraversati da informazioni, da quel “flusso enorme di informazioni provenienti da settori diversi della società”, sono oggi la preda più ambita da quel nuovo potere che ha saputo andare oltre il “capolinea della modernità”, grazie alla capacità di assumere come proprie quelle istanze rivoluzionarie per le quali intere generazioni passate avevano lottato e anche sacrificato la propria vita. Il corpo di Primo, dal suo “avviamento” con la lima, e il martello scagliato contro il suo insegnante, al ballo per sopravvivere e/o per amare, incontrarsi, scontrarsi, si è fatto man mano corpo politico, desiderante quanto resistente. Intellettuale venuto dal popolo, dalla classe subalterna, cosi si usava dire a quei tempi, Primo ha usato del corpo soprattutto la funzione primaria, quella che ci distingue dalle altre specie animali: il linguaggio nella sua facoltà di esprimere, comunicare ma soprattutto immaginare. Immaginare ciò che è in potenza, ciò che ancora non è ma potrebbe essere, ciò che mettendo insieme l’immaginario di tutti può diventare possibile. Primo non ha solamente parlato ma ha praticato il parlare. Ha unito ciò che linguaggi diversi (spesso marginali, sempre per lo più inascoltati) avevano in comune, favorendo la capacità dell’ascolto reciproco, per quanto duro, conflittuale, non necessariamente conciliabile, comunque sempre arricchente. Ed è in questa accezione di corpo, attraversato da linguaggi plurimi che introietta e riconverte secondo le proprie esperienze e i propri pensieri, che un altro intellettuale dilettante (che si diletta e trae divertimento e piacere da ciò che fa) Antonio Caronia, che ci ha lasciato solo cinque anni fa, si può accostare alla scomoda figura di Primo Moroni. Antonio Caronia si è occupato di fantascienza, di mondi virtuali e di ciò in cui l’uomo si stava trasformando in questa nuova era del postumano. Di alcuni anni più giovane di Primo e con una formazione politica e culturale affatto diversa, Antonio condivideva con lui il pensiero di un corpo eretico: di un pensare, un agire, un muoversi, ballare o recitare che era il parlare di un corpo non scisso, caparbiamente legato al corpo collettivo di una comunità, di una classe che volevano e auspicavano rivoluzionaria, cioè capace di cambiare, di essere libera nel mutamento continuo a cui solo chi è libero è obbligato. E se sono proprio le trasformazioni delle tecnologie legate al capitale a renderci sempre meno capaci di mutamento, sempre più assimilabili a un’essenza macchinica, le domande che “ci accompagneranno a lungo, nel secolo appena iniziato” saranno proprio quelle legate alla possibilità o meno di rientrare nel proprio corpo “dopo averlo temporaneamente dimenticato sulle reti” o su come tornare a casa non avendo “più una casa, ma una pluralità di dimore, di luoghi virtuali” (Caronia, Il Cyborg). Primo e Antonio sono stati coraggiosamente, come pochi altri, intellettuali di confine, spesso in avanscoperta nella terra di nessuno a sondare possibili percorsi, nuovi territori con nuove popolazioni che si stavano formando. Sorta di antropologi dei mondi in formazione, reali, possibili o solo immaginari che fossero, della cosiddetta postmodernità, entrambi si sono serviti degli attrezzi più disparati, da quelli della filosofia a quelli, comunemente considerati più grezzi, della fantascienza (comune il grande interesse per J. G. Ballard e P. K. Dick). Non solo ricordarli, ma riflettere e ragionare su di loro, con loro, oggi significa innanzitutto non farci illusioni: non ci sono nuove utopie all’orizzonte e quelle vecchie non ci possono aiutare più. Occorre una nuova consapevolezza, i cui germi sono stati messi in quei decenni raccontati dall’Orda d’oro di Moroni e Balestrini, che la posta in gioco oggi non è più solo l’ingiustizia o addirittura il riproporsi di una nuova forma di schiavitù, ma la vita stessa di tutto il genere umano. Più il capitale s’impadronisce, tramite i suoi sempre più sofisticati dispositivi, della vita nella sua totalità (come ben ci fa vedere la biopolitica di Foucault) più la prospettiva dell’estinzione per la nostra specie si fa reale e concreta. Non abbiamo alternative, d’ora in poi possiamo lottare solo per la vita, e come rendere questa lotta gioiosa, ricca, fonte di libertà non ce lo insegnerà nessuno; possiamo solo impararlo insieme, mettendo a confronto le esperienze nostre e di quelli che ci hanno preceduto e, semai, sono riusciti a spingersi un poco più in là, come Primo e Antonio, nei futuri possibili ma non ancora scritti.

Marisa Bello e Giuliano Spagnul