La traversata del deserto

Il tempo del dopo è cominciato.

Esso si presenta come un deserto di cui non vediamo la fine. La sconfitta che il movimento di liberazione oggi conosce non è il prodotto della repressione. Il movimento non può essere sconfitto dalla repressione, ma solo dalla sua propria incapacità di comprendere le forme nuove del reale, il mondo delle nuove forme di vita. Dei nuovi scenari dell’immaginario. La repressione viene dopo, quando il movimento è sconfitto. E la sconfitta dobbiamo guardarla in faccia, per poi andare oltre, senza piagnistei.

Fottersene: delle prediche del potere come della sua crudele vendetta, come del suo realismo immorale.

Abbiamo vissuto. Viviamo. Gli uomini del potere non conosceranno mai la ricchezza della vita perché, difensori dell’esistente e del probabile, non possono neppure ammettere le infinite possibilità di esperienza che eccede ciò che esiste.

Due atteggiamenti vanno spazzati via: quello di chi resiste, di chi difende i valori del movimento passato, le forme di vita e i comportamenti che la ristrutturazione produttiva e le mutazioni hanno reso vane. In questo non capiremo nulla di quel che accade, resteremo attoniti in un mondo di intelligenze metalliche e di immagini elettroniche.

Un secondo atteggiamento è quello di chi accetta tutto con la scusa elegante del cinismo.

Come si può non ribellarsi?

Come si può- non vedere che proprio dove più spaventosa è la miseria, dove più oppressa è la vita e più appiattita l’intelligenza, proprio là sta connettendosi un universo di possibilità, incommensurabili con l’esistente, del tutto estranee fino al punto da non potersi più interpretare con le categorie della dialettica di opposizione e antagonismo?

L’infinita potenza della restaurazione mette a nudo l’insostenibilità dell’esistente, l’inesorabile tendenza alla catastrofe.

Occorrerà liberarsi dell’antica dialettica, della teoria del superamento e dell’opposizione antagonista. Occorrerà ragionare in termini di possibile, concatenare i segni e le forme del sapere assurdo delle tecnologie irrealizzabili, la sperimentazione di altri universi.

Nella cultura del deserto non v’è più spazio per la totalizzazione dialettica. Vorremo esserne gli ultimi paladini? Per noi la crisi è (in)finita: il concetto stesso di crisi si fonda sulle categorie della dialettica, sul segno del superamento e sulle sue delusioni.

La condizione del discernimento (della critica, della distinzione) viene meno con il costituirsi di un immaginario delle configurazioni istantanee, delle configurazioni video-elettroniche. La breve era del Logos (e della politica) è sommersa nella cultura del deserto. Vorremo noi restaurare la ragione critica? Lasciamo ai cultori del museo viennese gli alambicchi della crisi, estremo prodotto dell’ottimismo illuministico e della ragione critica, estremo prodotto del teleologismo dialettico e dell’idealismo del superamento.

La ragione critica è finita, nella cultura del deserto.

Lasciamo i nostri bagagli e costruiamo un’altra bussola: quella del passato non serve più perché il nord e il sud sono mutati. L’immaginario della popolazione del deserto è un immaginario di stordimento: è l’epoca di dio e dell’eroina. Ma in questo immaginario, cioè in questo reale, non potremo certo riabilitare i valori del discernimento, né ricostituire le condizioni della ragione critica. E’ la logica dell’alterazione che succede al pensiero dialettico. Non più la critica, non più la sequenzialità dei segni in un tempo suddiviso in unità discrete, ma l’istantaneità dell’alterazione, la produzione artificiale di un altro continuum.

Entro questo immaginario occorre muoversi, per uscir dal reale che lo attanaglia e lo limita.

Non più una sequenza di segni che acquistano significato nella loro connessione dialettica, ma un succedersi di configurazioni. L’idea della transizione non ha più alcun fondamento: il Capitale è insuperabile, non ci sarà mai un superamento di questo universo. Ma a noi che ce ne fotte? Perché dobbiamo pensare che la nostra sorte sia legata a questa umanità? L’umanità che elegge Reagan e che subisce Breznev e che acclama Wojtila per quel che ci riguarda può anche scomparire.

Antagonismo e transizione piantarono le loro radici nel campo della politica. Ma quel campo ben coltivato dove la volontà umana sembrava poter produrre effetti commisurati alle intenzioni è con ogni evidenza finito. Guardate come stanno le cose: la rivoluzione proletaria che nel passato decennio ha marciato risolutamente in avanti non ha vinto da nessuna parte per la semplice ragione che non intende vincere. Essa non intende “realizzarsi”, non intende trasformarsi in governo dell’esistente. Non c’è possibilità di governare l’esistente che non sia quella di farne un deserto. Con la bussola della politica non ne usciremo mai.

Per il potere il deserto è l’unica terra su cui è possibile vivere: militarizzazione diffusa, guerra totale asintotica, decerebralizzazione di massa. In questo modo i padroni del tempo umano escono dalla crisi.

Occorre dunque cominciare a costruire nuove bussole. Esse avranno altre coordinate, altri punti cardinali e altre periodizzazioni. Della volontà e della transizione non sappiamo più che uso farne. Cominciamo a ragionare su due coordinate temporali che l’ottica politica ignora completamente: la coordinata del tempo lunghissimo dell’evoluzione antropologica, il tempo in cui si stratificano i gesti, le forme di vita le relazioni tra bisogni e consumi, tra miti e rituali. Il tempo dei fiumi che cambiano corso dei mari che debordano invadendo le coste.

In secondo luogo le coordinate del tempo brevissimo della neurofisiologia, là dove si verificano le mutazioni istantanee che rendono possibile un’altra visione, il tempo delle alterazioni biochimiche (droghe) delle alterazioni neuro-percettive (suono immagine) delle alterazioni tecnologiche (sperimentazione invenzione arte).

Poi cercheremo un ago capace di indicarci un nuovo nord e un nuovo sud. Quel che è certo è che la critica scompare come forma di funzionamento del cervello sociale, per far posto al susseguirsi delle alterazioni.

Alla dialettica della transizione sostituiamo una mitologia del possibile (e perché no una scienza dei mondi possibili) che abbia come oggetto le mutazioni: le neuromutazioni, le biomutazioni.

Solo l’alterazione, il gioco asimmetrico della mutazione può darci indipendenza dalla logica esistente, cioè la dialettica del capitale e del suo superamento, che è ancora il capitale. Tanto per regolare i conti con il situazionismo idealista non meno che con il marxismo leninismo in versione stalinista o in versione riformista. Tanto per regolare i conti con la dialettica. In modo, una buona volta, non dialettico.

Bifo