Il capitalismo all’assalto del sonno

Questa recensione a «24/7» di Jonathan Crary, a cura di Giuliano Spagnul, è il secondo contributo in direzione del quinto incontro de La fine dell’uomo. Il prossimo 12 maggio, a Piano Terra.

Aperto 24 ore su 24 per 7 giorni su 7, ma non 24 ore per 365 giorni perché implicherebbe “lo scomodo riferimento a una temporalità prolungata”: cioè l’idea di un futuro possibile, per quanto alienato, potrebbe di nuovo far capolino in questo “presente sempre più congelato”. Ma non è un presente fissato una volta per tutte in cui nulla accade. Come le vecchie rappresentazioni distopiche ci avevano abituato (i vari Huxley, Orwell, Zamjatin ecc.) una continua vertiginosa innovazione tecnologica impedirà “in effetti di abituarsi a qualsiasi cambiamento”. Questo nuovo mondo in cui siamo ormai irrimediabilmente immersi è il quadro che Jonathan Crary – insegna Modern Art e Theory alla Columbia University – ci presenta in questo pamphlet dall’efficace titolo «24/7», pubblicato nella collana ‘I Maverick’ dell’editore Einaudi nell’anno appena trascorso.

Crary scrive qui un opera di taglio giornalistico, paradossalmente all’opposto di un precedente saggio sullo stesso argomento di un giornalista, Lothar Baier, pubblicato più di dieci anni orsono col titolo «Non c’è più tempo. Diciotto tesi sull’accelerazione» edito da Bollati e Boringhieri, con un piglio più accademico (nel senso migliore del termine) e con una importante bibliografia a supporto. Antonio Caronia in una recensione del libro apparsa il 10 giugno 2004 sul «L’unità» con il titolo “Cogli l’attimo! (Se ci riesci)”1 ci spiega che “si tratta di una lettura quanto mai gradevole e utile, un esempio di prosa saggistica non sistematica ma per nulla episodica, centrata com’è sulla convinzione che i ritmi sfrenati e sfiancanti dell’esperienza contemporanea imposti dalle tecnologie digitali, lungi dal farci ‘risparmiare tempo’ come pretenderebbero, rendano invece spasmodica la ricerca del tempo: quanto più tempo si risparmia, tanto più ne occorre, in un inseguimento paradossale e maledetto di questa risorsa apparentemente inesauribile, ma che si rivela invece terribilmente scarsa.” Chissà cosa direbbe Caronia di un libro come questo di Crary in cui il tempo sembra ormai del tutto esaurito. Zigzagando tra Foucault (il Foucault del potere disciplinare), Deleuze e Guattary, Jameson, Agamben, Debord, Sartre e film come «Solaris», «La Jetée», «Psycho» e «Blade Runner», ecco Crary consegnarci l’immagine di un mondo in cui l’ultimo baluardo, l’ultimo lembo di territorio non ancora assoggettato ai famelici tentacoli del capitalismo maturo, il sonno, sta per cedere ed essere definitivamente invaso e colonizzato. E se questo risultasse comunque un timore eccessivo nella sua reale fattibilità, rimane come minaccia concreta e dalle conseguenze nefaste il fatto che “se una realtà così privata e apparentemente intima come l’attività onirica diventa l’oggetto di scansioni cerebrali e può essere immaginata nella cultura popolare come un contenuto scaricabile, allora vi sono pochi vincoli all’obiettivazione di quelle parti della vita individuale che possono più facilmente essere trasferite su formati digitali.” Il sonno allora non tanto come ultima Thule da difendere, quanto piuttosto come cavallo di Troia capace di portare alla resa senza condizioni di quel decisivo fortino assediato ma non ancora del tutto conquistato che è l’immaginazione umana. Quell’immaginazione che è l’elemento umano che caratterizza l’umano in quanto tale.

L’essenza umana è quindi capacità di immaginare altro dall’esistente, facoltà che in sé impedirebbe al capitalismo di espandersi e prosperare all’infinito minando alle fondamenta la prerogativa che gli si vuole propria, quella di essere un mondo, una forma di vita a cui “non vi siano alternative”. Tutti i dispositivi tecnologici oggi in atto servono a questo, far sì che una “qualunque scelta di vita antimonadica o comunitaria” sia considerata come “qualcosa di inconcepibile.” L’analisi è impietosa e affatto veritiera.

Qualcosa però non convince del tutto, al contrario del libro di Baier, che pur contenendo espressioni forti come “campi di sterminio per il tempo” si guardava bene dall’esibire il tono catastrofista e un po’ apocalittico con cui Virilio espone le sue tesi” (Antonio Caronia). Crary sprofonda in un quadro apocalittico che solo apparentemente propone una via d’uscita. Proprio nel puntare l’indice contro l’attacco che il sistema capitalistico porta alla cittadella dell’immaginario, Crary rivela, nella sua disarmante nudità, tutto il vecchio armamentario essenzialista di una qualità dell’umano, dato una volta per tutte, che sta all’origine e che deve essere per tutti noi il Santo Gral da difendere e riconquistare nella sua integrità. Specchio di questa disarmante e disarmata strategia è la limitata visione della filosofia foucaultiana, che si ferma al Foucault del potere disciplinare a discapito dell’ultimo Foucault della cura di sé e del dire la verità; cioè delle pratiche possibili per costruire un nuovo soggetto capace non soltanto di resistere ma anche di aprire veri e propri spazi di esperienze del possibile e quindi di libertà. Ma ancora di più fa testo la totale incomprensione del significato dell’opera di Philip K. Dick presa in esame, «Ma gli androidi sognano le pecore elettriche?»2 da cui è stato tratto il film Blade Runner. L’avventura del personaggio di questo romanzo viene liquidata come una“lotta per la mera sopravvivenza in un mondo che va irrimediabilmente deteriorandosi”, non riuscendo a vedere che questa avventura che si svolge nell’arco di 24 ore porta a una vera e propria trasformazione del protagonista. Il Rick Deckard che esce al mattino per la sua giornata di lavoro non è lo stesso che rientra il mattino successivo. L’incontro con l’altro, con chi aveva considerato irriducibilmente altro da sé in quanto privo di quella capacità di provare empatia che egli considerava essenza fondante dell’essere umano, lo porrà di fronte al rischio di perdere la propria di umanità. L’esperienza di quella sua giornata sarà il prezzo doloroso e sofferto per poter subire un cambiamento in grado di fornirgli l’accesso alla verità. Quella verità che scaturisce dalle pratiche della vita e non da un universalismo astratto e assoluto. Questo mondo orribile ce lo siamo costruiti noi, sta dentro di noi, non lo sconfiggeremo, cioè non ne costruiremo un altro (migliore?) fino a che continueremo a vederlo estraneo a noi, affatto diverso.

  1. https://www.academia.edu/305223/Cogli_lattimo_se_ci_riesci_

http://una-stanza-per-philip-k-dick.blogspot.it/2014/10/ma-gli-androidi-sognano-le-pecore_31.html