Continuo/discontino: il tempo digitale

Con questo brano si apre la rincorsa di quindici giorni verso la quinta e penultima tappa del nostro ciclo di incontri 2019 dal titolo La fine dell’uomo.

Continuo/discontinuo: il tempo digitale

di Antonio Caronia, da: Negli occhi della mente in Cyberzone n. 22, 2010(*)

La rivoluzione digitale rimodella incessantemente le condizioni di equilibrio fra il sentimento interno del tempo e la sua oggettivazione sociale. Nel passaggio dalla prima alla seconda (o tarda) modernità il tempo sembra essersi “preso una rivincita” sullo spazio, ma ciò non significa affatto che si stia colmando lo iato fra tempo oggettivo e tempo soggettivo che segnò la nascita dell’epoca moderna: il “tempo reale” della comunicazione in rete non è affatto più sintonizzato col nostro senso della durata di quanto lo fosse il tempo precisamente scandito dagli orologi che fu una delle condizioni imprescindibili dell’età industriale.

Caratteristica di questa età fu infatti una sorta di “temporalizzazione dello spazio”, attraverso la valorizzazione del concetto di velocità. La riduzione della distanza, implicata dalla velocità sempre crescente dei mezzi di trasporto, portava con sé una capacità di apprezzare intervalli spaziali sempre minori, condotta tramite la misurazione degli intervalli di tempo impiegati a percorrerli. L’innovazione concettuale e pratica nei rapporti fra spazio e tempo fu, tra il 1880 e il 1914/5, quella della simultaneità. 1 La simultaneità fu il nuovo concetto che dominò le tele dei pittori cubisti e futuristi come i campi di battaglia della prima guerra mondiale. Ma in questo nuovo paradigma il tempo aveva una funzione subordinata rispetto allo spazio: era il parametro che serviva a marcare le progressive contrazioni delle distanze, l’operazione principe della piena modernità, insieme strumento e simbolo della prima fase della globalizzazione, l’occupazione imperialista dello spazio da parte del capitalismo pienamente dispiegato.

Colonizzato lo spazio, il capitalismo della seconda fase globalizzata procede adesso all’occupazione del tempo, o tenta di farlo. Ecco perché oggi si invertono nell’immaginario i rapporti fra spazio e tempo. Se il tempo dell’orologio servì ad animare la prospettiva centrale che dal Rinascimento in poi strutturò il nostro senso dello spazio, oggi è il cyberspazio che serve da supporto alla nostra immagine e alla nostra percezione del tempo. La simultaneità estesa a cui ci ha abituato la fase ascendente della modernità si coniuga oggi con il tempo reale della comunicazione in rete per restituirci un modello del tempo totalmente spazializzato. Il tempo è oggi “una superficie, una pelle, una iper-superficie”, come suggerisce de Kerckhove2, in cui i vari attimi sono raggiungibili con un clic, con una interruzione del tempo lineare e un salto che è sempre un salto in avanti; il che contribuisce a farci esperire il tempo “come continuo futuro, anziché continuo presente.”

Che il nostro senso del tempo fosse stato alterato dall’espansione delle tecnologie digitali, d’altronde, avrebbe dovuto farcelo sospettare da tempo la questione del nuovo statuto dell’immagine nell’era digitale. L’immagine fotografica tradizionale, oltre alla stretta corrispondenza fra il soggetto rappresentato e l’impronta o la traccia della “cosa necessariamente reale che è stata posta dinnanzi all’obiettivo,” per usare le parole di Roland Barthes, realizzava anche un peculiare senso del tempo. La fotografia analogica, chimica, fissando per sempre un particolare istante, lo prolungava sino a noi anche se lo allontanava in maniera definitiva e radicale. Il senso del tempo che ne derivava era una solida presenza del passato all’interno del presente, un cristallizzarsi e un oggettivarsi della memoria, una garanzia di convocazione del passato presso il presente. L’immagine digitale sconvolge alla radice tutta questa situazione: essa realizza una “radicale dissonanza ontologica”3 con l’immagine analogica. Non solo viene meno la garanzia che l’immagine digitale sia una traccia fedele, l’impronta che ha lasciato un soggetto posto davanti all’obiettivo, dal momento che non sappiamo a quali modificazioni essa sia stata sottoposta, e possiamo sempre addirittura sospettare che essa sia totalmente sintetica e non corrisponda a nessun oggetto fisico, come i paesaggi e gli “attori virtuali” del cinema contemporaneo. Non solo questo, perché la continua e totale manipolabilità, trasformabilità, dell’immagine in formato digitale la rende particolarmente inadeguata a testimoniare l’irreversibilità del passato. Soprattutto quando una di queste immagini compare in rete, essa è inevitabilmente proiettata verso il futuro, sembra attendere e addirittura richiedere l’intervento che la modificherà, che la trasformerà in qualche cosa d’altro, sempre meno riconoscibile mano a mano che la manipolazione procede. Nell’era del digitale l’immagine non è più icona, prodotto, ma simulacro, processo. Le immagini digitali sono solo “pattern recognition”, riconoscimento di modelli, come i misteriosi frammenti che circolano in rete (“the footage”, la “sequenza”) nell’omonimo romanzo di William Gibson4. È questa processualità (discreta, non continua) che detronizza il presente, e cioè la dimensione del tempo predominante nell’età moderna, e lo trasforma in futuro, che è la chiave dell’esperienza temporale dell’età tardo-moderna. Si tratta di un futuro totalmente immanente, però, che non ha nulla a che vedere con il futuro della modernità, che era una proiezione del presente del soggetto, un luogo da costruire con pazienza, sagacia e tenacia, nei tempi lunghi del lavoro e della progettualità. Il futuro tardo-moderno assomiglia piuttosto a uno spasmo del presente, a un’anticipazione frenetica di processi che non si distendono più dal passato al presente e oltre, ma vivono sin dall’inizio perennemente proiettati in avanti. È in un tempo frattalizzato di questo tipo che vive, naviga e si costruisce il sé dell’era digitale.

  1. Cfr. Stephen Kern, Il tempo e lo spazio. La percezione del mondo fra Otto e Novecento, Il Mulino, Bologna 1988.
  2. Derrick de Kerckhove, La pelle della cultura. Un’indagine sulla nuova realtà elettronica, Costa & Nolan, Milano 1996.
  3. Enrico Livraghi, “L’illimitata infondatezza dell’immagine digitale. Tesi intorno a un cinema d’oltre mondo”, in A. Caronia, E. Livraghi, S. Pezzano (a cura di), L’opera d’arte nell’era della sua producibilità digitale, Mimesis, Milano 2006.
  4. William Gibson, Pattern Recognition, 203; trad. it. Di D. Brolli, L’accademia dei sogni, Mondadori, Milano 2004.

(*) integrale qui: https://www.academia.edu/304333/Negli_specchi_della_mente