Un’ambigua utopia nella città viva

Da Linus dicembre 1981, di Antonio Caronia

Diceva Paolo fabbri al convegno ferrarese su “Città e metropoli” dell’ottobre scorso che la città è un fenomeno immaginario: nel senso che, come tutti avete capito, lo spazio fisico cittadino, l’agglomerato delle case, delle strade e delle piazze è il luogo di percorsi e traiettorie che non solo noi compiamo, quotidianamente e eccezionalmente, ma che proprio ci definiscono. Noi cittadini siamo, cioè, i nostri percorsi, le nostre fermate, il nostro girovagare nella città. La quale, proprio per questo, non è unica: in quelli che a noi sembrano gli stessi spazi convivono una città diurna e una notturna, una città degli adulti e una degli adolescenti, e così via. È chiaro, diceva sempre Fabbri in quell’occasione, che ci occorrono nuovi modi di organizzare e di pensare questo spazio, e questi modi, secondo lui, già in parte esistono: sono, per esempio, strutture ben note ai matematici, come reticoli, spazi fibrati, topologie, concetti sui quali, per le note carenze delle nostre capacità divulgative, non ci fermeremo neppure un attimo. Si potrebbe, volendo, fare addirittura un passo più in là di Fabbri, e dire che la città, proprio in quanto rete di percorsi individuati e collettivi, non è solo una metafora del sapere contemporaneo, ma tende in qualche modo ad identificarsi con esso. Ipotesi tanto più suggestiva quanto più avanza, anche nello spazio urbano e metropolitano, la presenza “organizzatrice” e pervadente del calcolatore (nell’organizzazione del traffico, dei servizi e così via). Da dove poteva venirci l’immagine più viva (in senso letterale, come vedremo) di questa città, se non dalla fantascienza? Riprendendo un’abitudine ben consolidata fra gli scrittori di fs (e che ha prodotto, per fare solo un esempio, gli straordinari affreschi di città di Delany in Babel 17, Nova, Dhalgreen e Triton), John Shirley, autore delle ultime leve, ci dà il suo ritratto di città in City Come A-Walkin’, tempestivamente tradotto in Italia presso Mondadori (Il rock della città vivente, Urania 902 del 4 ottobre 1981). (…) Shirley, con procedimento tipicamente fantascientifico, decide di uccidere un’altra metafora e trasformarla in identità. La città contemporanea, con la sua organizzazione sempre più computerizzata, coi suoi flussi di persone, veicoli e informazioni, con i suoi “organi di senso” (televisori e telefoni) assomiglia sempre più a un organismo vivente? Niente affatto, essa è viva in senso proprio, può addirittura incarnarsi in una persona, e condurre una lotta contro le nuove mafie dei computer che essa giudica corpi estranei dentro di sé. Nessuna meraviglia che in uno scenario del genere il linguaggio più stuzzicante sia quello della musica e del nuovo genere metropolitano, l’”angoscia rock”; ma neppure ci stupisce che Shirley denunci esplicitamente il suo debito verso precedenti cantori della città come i classici della hard-boilled school poliziesca. Non a caso, infatti, la città del romanzo è San Francisco, e l’impianto narrativo deve molto alla detective story. L’aspetto più interessante del romanzo sono comunque i percorsi, frammentati e più volte intersecantisi, dei due protagonisti, in una città in cui tutto è mescolato, le ragioni e i torti, la realtà e l’utopia, il progetto e il quotidiano. Certo, non è una novità: il viaggio e la rappresentazione della città sono due costanti della narrativa di fantascienza, con la quale essa paga i suoi debiti ad una delle sue progenitrici, la narrativa utopistica. Ma a quali mediocri risultati costringa una stanca ripetizione dei moduli del viaggio utopico è dimostrato da una delle ultime opere di Ursula Le Guin, The Eye of the Heron (L’occhio dell’airone1, pezzo forte dell’antologia Millennial Women, uscita in USA nel 1978 dalla Delacorte Press. (…) Al suo centro il viaggio, lo scambio, fra due diverse città (quella autoritaria e maschilista e quella utopica, non-violenta); ma nonostante gli sforzi il risultato di I reietti dell’altro pianeta non si ripete, e siamo di fronte a una delle produzioni più deboli della scrittrice dell’Oregon. La quale, come dimostra invece il risultato di The Beginning Piace (da poco tradotto in italiano: La soglia, (Editrice Nord, 1981) sembra recentemente trovarsi più a suo agio nell’universo della favola, sia pure costantemente riferito e confrontato con la realtà contemporanea.

  1. Ursula Le Guin, L’occhio dell’airone,  Elèuthera, Milano 1998