L’uomo che amava troppo – parte 3

Ho conosciuto Diana in un collettivo di autodifesa contro la repressione. Di solito, dopo le riunioni, mi accompagnava a casa con la sua automobile e mi faceva parlare; mi scoprii con piacere a raccontare di me, e mi sembrava una cosa strana perché di solito erano gli altri che si confessavano. Mi colpiva – e ancora oggi mi colpisce – la forte capacità intuitiva di questa persona: riusciva a far emergere le cose che si nascondevano dietro le mie parole, perché io avevo ancora un certo imbarazzo a lasciarmi andare, la conoscevo appena.

Mi accorsi di essere completamente sedotto da lei, nel giro di un paio di mesi, perché alle riunioni ascoltavo solo i suoi discorsi; ma non mi sarei mai permesso di immaginare che potesse nascere qualcosa di più complicato: la mia fedeltà a Caterina era per me un fatto scontato.

Uscii qualche volta a cena con Diana e altre amiche. Poi, restavamo soli. Era estate, prima che lei mi accompagnasse a casa giravamo per ore nella città deserta, io ero completamente fatto, perdutamente conquistato dai suoi racconti, dalla sua intelligenza seduttiva, dai suoi occhi verdi che non mi facevano capire più niente… Però non osavo toccarla, anche se mi sembrava di intuire una certa disponibilità.

È stata lei, una settimana più tardi, dopo il solito collettivo, ad affrontare la questione. Con molta semplicità ha detto: “Mi sembra di capire che la cosa non ti interessa, però a me piacerebbe fare l’amore con te”. Ma io volevo molto di più. “Guarda che hai sbagliato tutto” – le ho risposto – “in realtà sono io che vorrei stare tutta la vita con te.”

Così è cominciata una storia che mi terrorizzava. Avevo paura di scombussolare il rapporto con mia moglie – a me piaceva ancora stare con lei – ma, soprattutto, paura di me stesso, del male che riesco a fare a me stesso quando mi innamoro. Era come se mi fossero ritornate di colpo tutta l’angoscia e la sofferenza che avevo vissuto per Arianna e per Sibilla, sommate insieme. Conoscevo troppo bene i disastri che producono nella mia vita gli innamoramenti; sapevo quanto mi travolge questa dimensione del desiderio e del rapporto con la donna. Mi dicevo – anche – che, forse, le esperienze già vissute, e poi, la realtà della lunga storia con Caterina, ancora presente, mi avrebbero salvato da un nuovo troppo distruttivo travolgimento.

In famiglia i problemi incominciarono subito perché io ero abituato a passare tutte le sere con Caterina, puntualissimo ai pasti e agli altri appuntamenti con lei. Dovevo inventare bugie, impegni immaginari, e non l’avevo mai fatto. Ma Diana mi attirava in modo irrazionale, emotivo, totale. Staccavo tre volte al giorno dalla libreria e andavo sotto il suo studio, anche solo per stare con lei un quarto d’ora al bar o per fare una passeggiata intorno alla casa. Ero preoccupatissimo di perfezionare questo rapporto, di dedicargli un’attenzione quasi spasmodica. Lei, però, è una persona di grandissima indipendenza e solitudine. Dopo un’esperienza matrimoniale e dopo altre due relazioni, non intende assolutamente vivere sotto lo stesso tetto con un uomo.

Ma, ciò che più conta, Diana ha avuto esperienze complesse nei gruppi femministi, maturando una cultura del privato molto superiore alla media. E, naturalmente, alla mia. Fino a quel momento avevo letto tutto quello che c’è da leggere sul femminismo; avevo parlato e discusso con molte femministe che frequentavano la libreria ed erano per me delle buone – anche se “scomode” – amiche. Ma non avevo mai conosciuto nell’intimità e nel confronto del rapporto personale una donna che avesse vissuto in prima persona – e così intensamente – un processo di autoformazione e di autocoscienza.

Diana, fra l’altro, ha una capacità incredibile di stabilire amicizie femminili; i suoi rapporti privilegiati sono quasi esclusivamente con le donne. Ma, sugli uomini, esercita uno straordinario potere seduttivo. Anzi, a questo proposito, ho vissuto due episodi bizzarri: si è creata tra me e i suoi ex fidanzati una specie di amicizia, di forte solidarietà maschile. Uno era un famoso campione sportivo, bello, sano, pieno di vita; era anche cliente della libreria. Mi disse: “Guarda io sono stato innamorato per tre anni di Diana, e poi ho dovuto restare tre anni nel Tibet per riprendermi”. Anche l’altro – un notissimo ingegnere – mi mise in guardia affettuosamente.

La sua insolita cultura del privato portava Diana a rivendicare la propria autonomia senza doverne rendere conto a nessuno;  la portava a non dare conferme sulla fedeltà. Gli uomini, invece, chiedono continuamente conferme. Devo precisare che con lei – come, del resto, con altre donne – non ho mai avuto problemi di gelosia: non sono geloso del corpo, sono geloso del rapporto privilegiato. Anzi, se la donna che sta con me desidera contemporaneamente un altro uomo ed io, però, vivo con sicurezza la nostra relazione, il fatto che la mia compagna abbia una storia di sesso con lui, si può trasformare nel mio immaginario in un evento piacevole, eroticamente stimolante. Non solo, il suo desiderio diventa il mio; si crea un’estensione del piacere: se questo uomo ha avuto un’intimità col corpo della mia partner, mi sembra naturale desiderare di avere anch’io intimità col corpo di lui. Per ragioni contingenti, poi, l’”evento” rimane a livello di proiezione fantastica; ma vorrei viverlo anche nella realtà.

Dunque, non era la gelosia “fisica” che mi creava conflittualità nella relazione con Diana, bensì il suo bisogno di indipendenza totale e assoluta, su tutti i piani.

Si trattava, del resto, di una relazione estremamente complessa, perché molto complessa è la sua personalità, la sua costruzione intellettuale, il suo modo di concepire il mondo; influenzati anche dal fatto di essere stata, da ragazza, anoressica. Con l’età adulta Diana ha superato l’anoressia alimentare, ma ha conservato una fortissima componente di anoressia mentale.

È molto difficile per me spiegare attraverso quali meccanismi e caratteristiche Diana esprimeva la propria anoressia mentale, che non è una malattia ma la sua sublimazione; un processo di identità, di riflessione e di trasformazione che richiede una volontà di ferro e una sensibilità esasperata; una sorta di ricerca di purezza e di incontaminazione che prima era del corpo e poi diventa della mente. Sono tutte cose che, dopo l’incontro con Diana, mi hanno affascinato moltissimo, portandomi a leggere decine di libri sull’argomento (ho scoperto che molte sante erano anoressiche così come molte intellettuali e scrittrici; ma lo sono anche le femministe americane più radicali).

Cercherò, dunque, di spiegare poco e di raccontare, invece, alcuni momenti del mio rapporto con Diana che possono illuminare la sua strana scelta. Ho scoperto stando con lei una dimensione femminile che, forse, è il completamento definitivo di quanto io possa acquisire sul mondo delle donne. Infatti lei mi ha trasferito una serie di percezioni essenziali e irripetibili, ma non tanto con le parole, quanto con i comportamenti a cui dovevo rispondere sfruttando il massimo della concentrazione e dell’intelligenza, mettendo in moto un meccanismo quasi esclusivamente intuitivo, perché è questo, anche, un aspetto delle caratteristiche mentali dell’anoressia. In alcuni momenti le reazioni di Diana erano veramente indecifrabili e allora io stavo male – è normale soffrire quando non si capisce cosa sta succedendo alla persona che ami -; ma, a poco a poco, componendo i tasselli dei suoi racconti sul passato e quelli delle mie conoscenze sull’anoressia, acquisite attraverso la lettura, fui in grado di mettermi più spesso in sintonia con lei.

Ho capito, per esempio, che non tollera di essere scoperta nei suoi momenti di fragilità perché ciò la pone in pericolo di contaminazione mentale col mondo (così come il rifiuto del cibo è un desiderio di purezza del corpo). È quasi impossibile, dunque, penetrare la parte più intima dei suoi pensieri e dei suoi sentimenti; arrivare fino al fondo della sua anima, se non in momenti molto drammatici, quasi di crollo psichico. Nei due anni in cui siamo stati insieme, è capitato rarissime volte.

Ricordo una sera. In una stanza con le luci basse, la musica soft, lei incominciò di colpo a raccontare una storia molto personale – tutta di sofferenza – su alcune fratture della sua vita, un’adolescenza piena di nodi, alcune percezioni del mondo e degli altri. Un insieme di pensieri e giudizi molto lucidi, molto profondi con i quali lei convive quotidianamente e che lasciavano trasparire una lunga riflessione precedente, quasi una macerazione. Ma il giorno mi ha telefonato affannata: “Dimentica tutto quello che hai sentito ieri sera”. Non sopportava di essersi abbandonata.

Diana era anche capace di stare tre settimane chiusa in casa da sola, senza mai uscire; ha una volontà fortissima, è una lettrice formidabile, possiede una cultura più profonda di quanto non lasci trasparire in pubblico, ma, soprattutto – e questa è la qualità che mi ha sempre colpito in lei – ha una capacità riflessiva e intuitiva sul prossimo assolutamente straordinaria, che non esibisce quasi mai se non con poche persone privilegiate.

Infatti lei è stata l’unica a capire che avevo avuto un amore omosessuale; quell’episodio ormai lontano, che non avevo raccontato a nessuno in tutta la mia vita, neppure a Sibilla, neppure a mia moglie. Mi ricorderò sempre i particolari della sua “scoperta”. Accadde quella notte che girammo senza meta per la città, prima ancora che la nostra storia incominciasse: alle quattro del mattino in un locale dietro i Navigli dove eravamo rimasti gli unici clienti, Diana guardandomi dritta negli occhi mi disse: “Tu hai fatto l’amore con un uomo…”.

Per me è stata una liberazione, non perché lo sentissi come una colpa ma perché tacendolo, forse, non potevo esprimermi sessualmente fino in fondo. Infatti, a quel punto riuscii a mettere in moto una parte femminile di me che diventò poi un elemento essenziale nell’erotismo con Diana. Grazie a questa dimensione un po’ trascurata di femminilità – grazie a certi gesti e scambi di ruoli che sdrammatizzavano l’impatto con la mascolinità – lei si liberò anche della sua supposta frigidità; di quei blocchi del piacere che lei diceva di aver vissuto con gli altri uomini importanti della sua vita, perché, appunto, loro si comportavano esclusivamente da “maschi”, non mettevano in gioco alcuna componente femminile.

Lo so che il discorso può sembrare un po’ contorto, ma è importante capire che la “frigidità” di diana – lei la definiva così ma non aveva nulla da spartire con l’apatia sessuale di altre donne – nasceva proprio dalla paura del rischio di contaminazione insito nel rapporto di intimità; un’idea, ancora una volta, legata alla sua anoressia mentale. Con me – creatura di vaga androginia erotica – questo pericolo cadeva, liberando il piacere. E mentre io scoprivo, proprio attraverso questa capacità di abbandono al corpo femminile – il suo e il mio -, di avere una sessualità ricchissima, lei poteva rovesciare le antiche convinzioni sul proprio scarso interesse per il sesso, abbandonandosi alla vastità e varietà dei propri desideri. Infatti una notte, dopo che avevamo fatto l’amore, Diana riuscì ad abbandonarsi, raccontando fino in fondo tutte le sue angosce, la sua storia personale, che per lei era un fatto molto segreto. E il giorno dopo, anziché pentirsi, come era accaduto in precedenza, mi mandò una lettera: scriveva che per la prima volta nella sua vita era riuscita a provare la capacità di abbandono nello svelare se stessa.

Non so dire in modo preciso come ho vissuto l’erotismo con Diana. Credo, un po’ come uomo e un po’ come donna – lei, fra l’altro, ha una figura androgina per me di grande fascino -; credo di aver sperimentato con lei una sorta di costante bisessualità, molto forte, molto estesa e diffusa, eccezionalmente piacevole: quasi, per me, un paradiso perduto.

L’unico ostacolo alla felicità – ma un ostacolo per me enorme – era la contraddizione tra il mio desiderio di stare sempre con lei, di costruire con lei un progetto di vita, e la sua cultura del privato assai più aperta, avanzata, in qualche modo raffinata, che la portava a considerare la convivenza un limite. I miei bisogni erano più tradizionali; più banali e più semplici, forse. Lei era andata “oltre”. Questo ha creato in me un’inquietudine crescente; anche un fastidioso senso di insubordinazione, perché era lei a dettare le regole del rapporto. La sua indipendenza estrema mi angosciava fino alla rabbia, fino alla disperazione.

Diana aveva sempre dimostrato una rara delicatezza nei confronti della mia situazione di uomo sposato. Considerando se stessa libera, estendeva a me la libertà di vivere tranquillamente il mio matrimonio con Caterina. Le sembrava assurdo che io rompessi con mia moglie o che la mettessi al corrente della nostra storia. Ma io non potevo vivere in questa menzogna.

Parlai con Caterina e naturalmente scoppiò la tragedia. Le sue reazioni furono ancora più dure di quanto potessi immaginare: mi si rivoltò con violenza, quasi distrusse la casa, il suo equilibrio psichico vacillò. Lasciai lei e nostra figlia anche se non sapevo dove andare. Tutto mi stava crollando addosso: improvvisamente avevo perso la mia famiglia – questo mi creava un grave senso di smarrimento ma anche di colpa -; oltre tutto Caterina stava molto male e tentò più di una volta il suicidio. Ma anche il mio lavoro andava a pezzi perché da alcuni mesi io avevo praticamente abbandonato la libreria, perso dietro i miei problemi personali. Insomma, nel giro di pochi anni avevo vissuto prima il crollo del mio progetto politico, poi quello del mio privato; infine si stava sgretolando anche l’ultima struttura di identità, la libreria.

Non avevo casa; dormivo nelle case degli amici, cambiando ogni giorno perché l’inquietudine mi spingeva a non fermarmi mai. Ero di nuovo un ragazzo di strada, ma ormai ero un ragazzo di quasi cinquant’anni.

Esageravo, anche, con l’alcool e con gli psicofarmaci. Una notte finii all’ospedale perché avevo perso conoscenza. I soliti percorsi della depressione e del crollo emotivo, ben noti a molti uomini della mia generazione.

Certo, potevo contare ancora sull’amore di Diana. Ma lei era molto delusa per il mio comportamento; anche perché avevo fatto una scelta così radicale, rompendo il mio matrimonio.

D’altra parte proprio questa rottura mi rendeva ancora più indifeso, spingendomi a cercare un appoggio in Diana; mentre lei non voleva diventare il mio punto di equilibrio o il bastone della mia fragilità e, neppure, la mia nuova moglie.

La mia presenza si faceva sempre più oppressiva, nella richiesta di bisogni che lei non poteva soddisfare. Ero diventato perfino un individuo balbettante nella propria vulnerabilità. Ricordo che in quel periodo andammo qualche volta a ballare: io sono un ottimo ballerino – campione a livello internazionale di gare da ballo -, ebbene, con Diana ero completamente bloccato, tanto che lei mi disse: “Ma tu mi hai raccontato delle storie, altro che campione, tu non sai neppure muoverti”.

Negli ultimi mesi della nostra storia, Diana ha sofferto molto – come dimostrano anche alcune sue lettere straordinarie – perché era testimone del mio disfacimento, nell’incapacità totale di adeguarmi al suo progetto di un rapporto di reciproca autonomia.

Capisco che possa sembrare un gioco cerebrale ma non bisogna dimenticare che con Diana tutto era estremizzato. Così io non so se mi ha lasciato lei o se l’ho lasciata io, come atto d’amore perché era troppo doloroso per lei vedermi dentro questo tunnel di autodistruzione. È certo che, negli ultimi tempi, ogni volta che stavamo insieme si finiva nel dramma, perché ognuno dei due chiedeva cose che l’altro non era in grado di dare. Forse oggi, dopo un lungo periodo di autoanalisi su questa vicenda, avrei le strutture per confrontarmi con lei. Ma sono passati tre anni.

Perderla per me è stato sconvolgente. Non tutte le donne lasciano tracce così profonde. Ancora oggi se devo andare a Porta Venezia non prendo il tram 29 perché passa davanti a casa sua; faccio spesso percorsi molto complicati pur di non incrociare luoghi a rischio. Non solo non sono in grado di incontrarla, ma neppure di andare in un bar o in un ristorante dove siamo stati insieme. Nonostante queste precauzioni qualche volta mi capita di vederla, tra amici comuni: subito mi torna l’angoscia, per molti giorni mi va insieme il cervello. Succede, anche, che mentre sto per prendere sonno mi ritorni in mente il suo viso, gli occhi o la voce: allora il sonno se ne va, e io resto lì fino all’alba a guardarla, ad ascoltarla.

Nei due anni successivi a questo abbandono, forse è esagerato dire che volessi morire, però mi sono completamente rovinato. Tuttavia, ritengo che questa esperienza sia stata così radicale – anche nel dolore – da sentirla come un fatto positivo. Credo si sia trasformata in uno strumento di conoscenza di me stesso quasi definitivo, nel senso che in qualche modo sono veramente cambiato. La prova più concreta è proprio questa: se cinque anni fa mi avessero chiesto di parlare del mio privato, come sto parlandone ora, in modo sincero ed esplicito, non ne sarei stato capace, o avrei risposto con indecifrabili balbettii.

Devo quasi esclusivamente a Diana questa mia nuova apertura. Adesso lo so. Lei mi spingeva continuamente a una sincerità radicale, a tirar fuori anche le miserie, anche le debolezze, attraverso sottili sollecitazioni che partivano dalla curiosità ma a volte anche da crisi improvvise, da critiche durissime su alcuni miei occultamenti della comunicazione. All’inizio questo mettersi costantemente in discussione mi sembrava faticoso, ma con la mediazione dell’innamoramento, lo sforzo diventava più semplice; scoprivo che il tempo trascorso con lei era tanto più piacevole quanto più riuscivo a lasciarmi andare, a raccontare di me. Alt4re donne, nel passato, mi erano parse affascinate soprattutto dalla mia figura intellettuale, dalla mia dialettica nell’affrontare temi politici o culturali; a Diana – pur essendo a sua volta un’intellettuale molto politicizzata – di questo poco o nulla importava. A lei interessava solo che io scavassi nei miei sentimenti, nelle mie emozioni; è riuscita a farmi raccontare dei rapporti con le altre donne o della mia vita interiore più lei in poco tempo che mia moglie in quindici anni.

Ma l’abitudine a confrontarmi con le percezioni più segrete mi è rimasta anche dopo la fine della nostra storia. Infatti, non ho mai avuto tanto carisma sulle donne parlando del privato come negli ultimi anni: non si tratta di una strategia di seduzione, bensì di un’attitudine ormai spontanea. Mi sarei piaciuto, anzi, poter esprimere questa nuova capacità anche con Caterina; mi sarebbe piaciuto parlarle a cuore aperto e tornare a vivere con lei, perché poi, ogni volta che la vedo non posso nascondermi che le voglio molto bene e la desidero. Ma Caterina è ancora furiosa con me: dopo pochi minuti dal mio ingresso in casa – io vado spesso a trovare Ilaria, nostra figlia – lei scatena tutta la sua aggressività, così io sono costretto a starmene sulla difensiva, attanagliato dai sensi di colpa e dall’angoscia. Eppure sono passati tre anni dalla fine della relazione con Diana. E Caterina ora, da qualche mese, ha un nuovo compagno.

Anch’io ho avuto la fortuna di incontrare una nuova compagna. La nostra storia è iniziata sulla base di un rapporto quasi terapeutico, nel senso che Laura fa l’analista e mi ha aiutato moltissimo a districare i miei problemi; non in analisi – non sono mai stato da uno psicoanalista – bensì intessendo con me un legame di amicizia molto forte che si è poi trasformato, spontaneamente, in qualcosa di più.

Per i primi tre, quattro mesi della nostra convivenza, Laura ha passato notti intere ad ascoltarmi. Io ero ancora così confuso che pensavo solo al piacere di aver trovato qualcuno che mi lasciasse parlare del mio “grande dolore”. Gli amici in quel periodo furono molto solidali; avevo trenta case a disposizione, mi venivano a cercare di notte in giro per la città – ma mi trattavano come un cretino se mi mettevo a parlare del mio mal d’amore. Laura, invece, un po’ perché era analista un po’ perché nutriva un interesse personale nei miei confronti, mi spinse a smontare pezzo per pezzo tutta la vicenda con Diana, facendomi prendere coscienza degli aspetti positivi che avevo acquisito anche in quella che io consideravo una grande e terribile sconfitta. Ciò che maggiormente mi bruciava nel fallimento era il senso di inferiorità – la sensazione più umiliante per un uomo – che avevo provato di fronte a Diana. Ma notte dopo notte, con pazienza infinita, usando certamente le sue conoscenze psicoanalitiche e, insieme, la confidenza particolare che si stava stabilendo tra noi attraverso l’intimità e l’affetto, Laura riuscì a farmi capire quanti e quali strumenti di conoscenza mi aveva dato il mio rapporto con Diana.

Oggi la ferita del mio amore per lei non si è ancora rimarginata del tutto, anche se fa meno male. La ferita di un amore perduto rimane per tutta la vita dentro di me. Per quanto bizzarro possa sembrare, anche quando ho incontrato sull’autobus Arianna, il mese scorso, il mio cuore ha fatto un balzo; eppure era un amore di quasi trent’anni fa.

Io, un tempo, credevo che l’esperienza servisse a decantare il dolore; pensavo che, dopo la prima volta, ci si attrezzasse contro le lacerazioni, gli abbandoni; invece ogni nuova esperienza amorosa mi appare più complessa, più profonda, più strutturata, più matura, più affascinante e, quindi, anche la sofferenza della perdita diventa più bruciante. Immagino che a questo punto non mi capiterà più di innamorarmi così, ma se dovesse succedere – seguendo questa riflessione dell’intensità in progress – posso supporre che sarebbe un evento terrificante.

La storia che sto vivendo con Laura è molto equilibrata, molto stabilizzante. Paradossalmente io in questo periodo sono fragilissimo perché mi brucia ancora la ferita di Diana, ma, nello stesso tempo, mi sento forte con le altre donne.

Per sua fortuna Laura, facendo l’analista da anni, ha ottimi strumenti di difesa. E sa assai bene quello che vuole. Adesso è incinta e desidera fortemente il bambino. Se una donna decide di fare un figlio, lo fa, senza aspettare il consenso del partner. Ed è giusto così.

Laura sta per compiere trentotto anni, non ha mai avuto figli e come molte donne della stessa età, oggi, non vuole certo lasciarsi sfuggire l’occasione di questa maternità. È un’esigenza radicata che bisogna rispettare profondamente e con dolcezza.

Certo, quando l’ho saputo, sono un po’ sballato. Anche se ho una figlia ormai adolescente con la quale vivo un ottimo rapporto, non ho mai superato il mio antico terrore per la paternità. In più, questa volta si aggiungono alcune considerazioni legate all’età: quando questo nuovo bambino o bambina sarà adolescente, io avrò quasi settant’anni. Che padre potrò essere per lui o lei? Ma, soprattutto, che padre potrò essere dal momento che sto vivendo una fase esistenziale molto incerta, confusa. Non so bene neppure cosa farò fra una settimana: l’idea di progettare un futuro a più lunga scadenza si trasforma in un incubo.

Da poco ho riaperto la libreria, più che altro su pressioni dei tanti amici o compagni che l’hanno sempre frequentata, ma non è che ne avessi molta voglia. Naturalmente la situazione esterna, il contesto politico italiano, certo poco esaltante, contribuisce a questo vuoto di desideri.

Non ho interessi particolari in questo periodo, non mi piace quasi niente di quello che faccio; non riesco a identificarmi, mi sento provvisorio e sradicato, incapace di scegliere una cosa precisa e di trovare una vera ragione di vita.

Mi sembrava di essere appena entrato nella fase del lento rimarginarsi delle ferite, ed ora, l’idea di questo bambino mi ributta in un’angoscia che – sommando tutti i motivi che ho detto – diventa un cumulo di angosce.

In realtà, è come se la vicenda d’amore con Diana fosse l’ultima grande cosa che poteva accadermi nella vita.