Torno alla storia del mio club. Era un luogo molto spettacolare e molto frequentato, con un palcoscenico per esibizioni di cabarettisti e cantautori – vi sono passati tanti nomi famosi -, bar, biliardo, biblioteca e sala di lettura. Venivano gli artisti, venivano gli attori del Piccolo Teatro. Ma la sua caratteristica era che su tremilaottocento iscritti, ben duemilaquattrocento erano donne, di varie fasce sociali, dalle commesse della Standa a persone affermate in diverse professioni. Nel club io mi occupavo di molte cose, anche delle pubbliche relazioni: ero un personaggio in vetrina. Mi trovai così al centro di un gioco di seduzioni che io gestivo come se avessi molto vissuto, come se conoscessi tutto e tutti; in realtà era una grande recita per appropriarmi di questo mondo delle donne.
In principio la mia reazione fu soprattutto di sorpresa, poi mi sentii decisamente gratificato. Io ho quasi sempre difficoltà a prendere l’iniziativa con l’altro sesso: il fatto che qui la situazione fosse capovolta, eliminava le mie insicurezze.
Le donne che frequentavano il club – specialmente quelle che facevano teatro – erano più libere di me e, nello stesso tempo, molto ricche intellettualmente; anche se magari troppo imbevute di ideologia – ma in quegli anni, tra il ’67 e il ’70, l’ideologia viaggiava su tutti i binari – comunque, erano persone piacevoli e seducenti.
Intrecciai con alcune di loro relazioni che, di solito, non andavano oltre l’incontro sessuale, più o meno estemporaneo, più o meno disimpegnato. Fu anzi quello l’unico periodo in cui abbandonai la mia naturale riluttanza ad avere rapporti di pura corporeità, non arricchita dall’affettività e da una comunicazione più completa.
Al club conobbi anche un’attrice di teatro, poco più grande di me, già nota allora, oggi famosa: con lei instaurai una relazione che durò quasi un anno, anche se con varie intermittenze, e fu molto particolare nel mio percorso erotico. Era una donna intensamente cerebrale, con un grande potere di seduzione e una personalità molto più forte della mia. Aveva un modo di vivere l’erotismo straordinariamente libero e fantasioso, in cui non si negava niente, arricchito anche dalla capacità di trascinare il partner dietro la stessa incredibile estensione delle potenzialità del piacere.
In poco tempo mi sentii travolto, anche se avevo la sensazione che fosse un rapporto destinato a consumarsi presto, per il forte squilibrio fra le nostre personalità in cui lei era la più indipendente. Vivevo una subalternità costante; nutrivo un certo timore a contrappormi, una specie di timidezza a mettermi sullo stesso piano di comunicazione intellettuale; eppure sentivo un forte fascino e un’immensa curiosità per questa sperimentazione che non saprei definire diversamente se non come un’estensione erotica totale, un inglobamento nel proprio vissuto sessuale di tutto ciò che si può conoscere o praticare in questo campo, tra un uomo e una donna.
La raggiungevo a Roma o a Napoli, ovunque si trovasse nelle sue tournées, prendendo treni nella notte, seguendo come un’ombra inquieta questa figura femminile che era anche un po’ ironica, perché consapevole del proprio potere.
Nei pochi momenti di vita quotidiana che vivevamo insieme al di fuori della sessualità io mi vedevo infragilito, sempre sulla difensiva, debole; per esempio, andavamo al ristorante e qualsiasi discorso si iniziasse, su qualsiasi argomento – il teatro, la cultura, una concezione del mondo, un’opinione politica – mi sentivo costantemente in una situazione di inferiorità o di indecisione intellettuale di fronte alla sua estrema sicurezza. Invece, al momento dell’abbandono dei corpi, si creava anche per me una totale libertà, come se ci fosse una frattura fra i due tempi, quello della comunicazione e quello dell’erotismo. Mi lasciavo guidare in un percorso erotico della fantasia femminile – perché era sempre lei a condurre il gioco – docile e curioso.
Le due diverse culture da cui provenivo – prima quella degli anni Cinquanta, poi quella del Pci -, entrambe con i loro moralismi, non avrebbero certo approvato quello che stavo facendo, ma lei, l’attrice, aveva spezzato ogni barriera dentro di me, con un ragionamento semplicissimo: non c’è nulla di proibito, il piacere deve sperimentare tutte le possibili varianti – comprese naturalmente quelle del sadomasochismo – purché entrambi i partners lo desiderino, purché non sia una prevaricazione dell’uno sull’altro.
Credo però che questo uso “spericolato” del proprio corpo – e del corpo dell’altro – sia stato più facile perché nasceva dall’immaginario erotico di una donna. Successivamente, in altre circostanze, ho avuto la sensazione che sia più improbabile costruirlo quando le parti si rovesciano ed è un uomo che propone a una donna un equivalente percorso di immaginazione, desiderio, bisogno, proiezione. Se la tua partner non ha già vissuto qualcosa di simile, esiti a raccontare le tue fantasie, hai paura di essere frainteso o giudicato male; temi, insomma, di rovinare tutto. Non lo so. Forse mi sbaglio. Più passano gli anni e più mi accorgo di non capire granché del mondo femminile.
Il mio rapporto con l’attrice è finito senza molti drammi. Però ne sono uscito con una nuova sicurezza. Forse non era stato neppure un innamoramento, ma certo, una grande fascinazione dei sensi. Avere una storia di intimità con una donna che possiede un senso di sé così forte, facilita la conoscenza del proprio corpo, rafforza la propria identità. Questo, almeno, è ciò che accadde a me.
Nel frattempo ho conosciuto Caterina – che sarebbe diventata mia moglie. Caterina aveva solo vent’anni, tredici meno di me, e veniva da un mondo del tutto diverso dal mio e da quello che mi circondava. La sua era una famiglia della buona borghesia meridionale, che aveva accettato il suo desiderio di frequentare le magistrali a Milano solo a patto che lei abitasse presso una sorella sposata.
Ho incominciato a uscire con Caterina guidato dall’idea che, dopo l’abbandono di Arianna, dopo la storia con Sibilla, che aveva rappresentato la mia formazione sentimentale, e dopo quella con l’attrice, più particolare ma intensa, avevo bisogno di una relazione tranquilla. La giovanissima età di questa ragazza, e la mia presunzione di essere molto più esperto, colto e anche dotato di prestigio, mi facevano pensare di trovarmi al riparo dal pericolo di un nuovo innamoramento; ben difeso dal rischio di nuove sofferenze, nuove lacerazioni. Invece Caterina mi conquistò proprio con la sua grande spontaneità; la sua capacità di mettersi in rapporto con immediata sincerità. Il suo coraggio, anche: lei ventenne del Sud, con una famiglia benestante e religiosissima, la seconda volta che uscì con me, volle fare l’amore.
Ero affascinato, oltre che dalla sua immediatezza, anche dal fatto di vederla come portatrice di una cultura diversa; una cultura meridionale, passionale, molto allegra, molto ricca, che già mi aveva attratto nei mesi in cui ero stato in Sicilia a fare il militare (e in Caterina ritrovavo, soprattutto, le donne siciliane insieme pudiche e seduttive, che mi si erano come impigliate nella mente: un’emozione della memoria).
Così, nell’arco di pochi mesi, un rapporto iniziato per me quasi casualmente, è diventato talmente importante da farmi desiderare un progetto di esistenza insieme a Caterina. Una cosa molto lontana dal mio modo di vivere e che non credevo più possibile dopo l’antica rottura del mio fidanzamento con Arianna.
Vivevo in una dimensione romantica, quasi ingenua, che all’inizio mi faceva un po’ ridere ma che finì per coinvolgermi completamente. Mi ritrovavo a compiere gesti per me del tutto sconosciuti, ma che mi davano molto piacere; andavo apposta in campagna, in primavera, per cogliere ranuncoli e poi, tornato a casa, componevo con questi fiori i nostri nomi intrecciati.
Caterina era venuta a vivere nel mio appartamento, nonostante i problemi che questo le creava rispetto ai parenti. Ricordo anzi di essere andato, sorprendendo me stesso, in piena notte – non sapevo aspettare – a casa della sorella per spiegarle che avevo intenzioni serie. Naturalmente, per me la convivenza era già una cosa serissima; non sentivo nessuna esigenza matrimoniale, ma il matrimonio mi sembrava giusto per Caterina: in fondo era una ragazza di vent’anni che i genitori borghesi e bigotti avevano affidato a una sorella adulta e sposata; non poteva sparire e andare a vivere con un tizio qualsiasi. Caterina non mi ha mai chiesto di sposarla. Ma a quel punto, mi è parso inevitabile andare al Sud a conoscere la sua famiglia. Sapevo che l’incontro avrebbe fatto nascere nuove difficoltà perché io non ero il marito che sognavano per lei; non davo alcun affidamento né economico né morale; non avevo una laurea e neppure uno stipendio. Ma Caterina era molto determinata e riuscì a parare ogni obiezione. Unica concessione ai genitori: ci saremmo sposati con una cerimonia religiosa; e lei con l’abito bianco.
La svolta nella mia vita privata non poteva che coincidere con un cambiamento in quella professionale. Nell’arco di pochi mesi ho chiuso il club perché era incompatibile con il mio bisogno di stare con Caterina; il club era aperto dalle dieci di mattina alle quattro di notte: che vita famigliare potevo offrirle?
E poi mi sono accorto che lei stava male perché, inevitabilmente, in quel luogo, io ero al centro dell’attenzione di molte donne e poteva sentirsi minacciata nel suo rapporto privilegiato. Ancora una volta, però, non si è lamentata, non ha chiesto nulla.
Del resto, i tempi erano maturi per altre scelte: baloccarmi con questo grande giocattolo che era il club non corrispondeva più al momento storico e al mio desiderio di entrare – con tutto me stesso – nella nuova fase. La libreria era un progetto che avevo accarezzato da molto tempo ma che ora mi appariva in sintonia perfetta con l’identità politica dei movimenti e dei gruppi appena nati. Insomma, un periodo ideale: una situazione privata serena, una donna con cui sto costruendo un progetto di vita; e, contemporaneamente, un progetto culturale e politico.
Nel frattempo Caterina, che avevo conosciuto come una ragazza senza alcuna formazione politica, o interesse politico, si era trasformata. Partecipava con grande impegno alla realizzazione di questa libreria, che, poi, voleva essere (e riuscì ad essere) molto più di un negozio di libri: un punto di riferimento preciso, a Milano, per i giovani della sinistra extraparlamentare, per gli anarchici, il movimento delle donne e quello dei gay – pur non facendo parte, noi, di alcun gruppo politico organizzato – un luogo dove un collettivo di compagni ha fondato riviste, messo in piedi un circuito di distribuzione, altre librerie collegate ma indipendenti; insomma, una grande rete di comunicazione alternativa, come si diceva allora.
Per circa tre anni Caterina, in teoria, fece la casalinga. Dico, in teoria, perché la nostra casa era sempre piena di gente; avevamo anche tre, quattro riunioni alla settimana e mi ero convinto che dovevano svolgersi proprio a casa, in modo che anche lei partecipasse, non si sentisse esclusa. Certo, questo via vai di compagni le dava un gran da fare, ma il suo entusiasmo per il nostro progetto culturale e politico la ricompensava della fatica.
Poi Caterina è rimasta incinta. Di nuovo, come la prima volta con Sibilla, sono stato preso dal panico. Una paura folle. Ma non avevo alcuna possibilità di intervento perché Caterina ha detto semplicemente: “decido io”. E la decisione, naturalmente, era di tenere il bambino. È nata Ilaria. Il primo anno è stato molto duro per me; poi mi sono innamorato di questa bambina e lo sono tuttora.
Ho vissuto un altro periodo di sbandamento quando Caterina decise di tirar fuori il suo diploma di maestra e di cercarsi un lavoro. Tentai anche di oppormi: ma, come sempre, lei era molto determinata. La bambina era ancora piccola, la scuola dove Caterina insegnava si trovava nell’hinterland; questo mi costringeva a modificare fortemente i miei tempi: dovevo accompagnare all’asilo la piccola, al mattino presto, riprenderla a mezzogiorno, farle da mangiare… uno scombussolamento notevole.
Mi sono sempre sentito impreparato sulle questioni del “privato”, su come equilibrare la gestione di una casa insieme alla propria compagna. Vengo da quel tipo di famiglia – proletaria di origine contadina – in cui i figli maschi sono sempre “serviti” dalle madri o dalle sorelle. Durante i primi anni di matrimonio, non mi passava nemmeno per la testa di alzarmi da tavola e di mettermi a lavare i piatti; proprio nemmeno mi sfiorava l’idea, e, probabilmente, se mi avesse sfiorato, mi sarebbe parsa una cosa umiliante. Mi sembrava più giusto e più gratificante dedicare tutto il mio tempo libero al corpo della donna, al suo piacere, alla sua affettività.
A un certo punto Caterina mi ha messo di fronte alle mie contraddizioni: come facevo a svolgere, fuori di casa, un’attività tutta proiettata verso i grandi mutamenti sociali, culturali e politici e poi, nel privato, lasciare che si perpetuassero gli antichi ruoli?
Ovviamente aveva ragione, ma mi costò fatica passare da un astratto consenso alla pratica. Diciamo che cercai di fare un aggiustamento nei miei comportamenti privati, ma non arrivai mai a responsabilizzarmi fino in fondo. Questo fu, anzi, per molto tempo, l’unico motivo di moderato conflitto tra noi. Un disaccordo che si stemperava, appunto, nella grande armonia e ricchezza della nostra unione: per quindici anni il mio rapporto con Caterina ha rappresentato il massimo che io abbia avuto dalla vita su tutti i piani; al livello della sensualità, della comunicazione dei corpi e delle parole, del piacere di stare insieme e di avere insieme una casa e una figlia. È vero che nella nostra relazione c’è stata una disparità iniziale perché io avevo un bagaglio di conoscenza e di sapere superiore – o diverso – rispetto a Caterina, ma nel tempo tutto questo si è equilibrato. Anzi sono convinto che senza di lei – senza questa casa punto di riferimento per tanti amici e compagni – anche la libreria non avrebbe funzionato, non avrebbe potuto esprimere quella capacità continua di progettare nuovi obiettivi, nuove attività culturali e politiche, che è sempre stata una delle sue caratteristiche essenziali.
Durante i quindici anni di vita matrimoniale con Caterina – e specialmente negli anni Settanta – abbiamo visto lo sfascio di centinaia di coppie. Dietro il mio bancone di libraio-confessore laico – ho spesso pensato che la gente venisse lì più per acquistare una merce speciale chiamata comunicazione che per i libri – ho ascoltato centinaia di racconti di uomini davvero disperati perché non capivano più niente delle loro compagne, e assistevano impotenti alla decomposizione dei loro amori, matrimoni, convivenze. La mia esperienza era completamente diversa: io stavo benissimo con Caterina, al punto che in tutti questi quindici anni non ho mai avuto una sola relazione extraconiugale e non ne ho mai sentito il bisogno. Posso aver provato per qualche attimo – come tutti gli uomini – desiderio per una donna ma niente di più.
A un certo punto questo incantesimo si è rotto. E, se devo essere sincero, non so ancora spiegarmi fino in fondo le ragioni, oggi, a distanza di qualche anno. Però posso azzardare alcune ipotesi.
Altri incantesimi si erano dissolti. Alla fine degli anni Settanta, con la crisi dei movimenti, buona parte dell’enorme circuito che si era creato intorno alla libreria, andò letteralmente in pezzi, anche con fatti molto drammatici. Centinaia di compagni arrestati; alcuni, condannati a lunghissime pene, sono in galera ancora oggi. In quella fase le vie di uscita erano secche: moltissimi sparivano nella clandestinità; altri si perdevano nella droga. Non pochi scelsero il suicidio. Non solo a noi, a tutti è capitato di conoscere persone che – in quel periodo – hanno rotto i rapporti con il mondo. È una perdita della tua storia, un pezzo della tua vita, della tua conoscenza, dei tuoi affetti che se ne va. La sensazione terribile è non capire più ciò che succede, non avere più strumenti di analisi.
Credo che per Caterina, a quel punto, non aver avuto un’esperienza forte nei gruppi delle donne, sia stata causa di fragilità. Quanto a me… Credo di aver trasferito in blocco nel privato il senso di malessere, insoddisfazione, nervosismo e incupimento che provavo in quel periodo, arrivando a essere scortese con lei, cosa che non avevo mai fatto. Ricordo di aver passato intere serate in silenzio davanti al televisore, io che ero noto per il mio carattere socievole ed estroverso. Non riuscivo neanche a comunicare con lei, a raccontarle cosa mi stava succedendo, ma in parte neppure lo capivo io stesso. Oggi posso dire che non sapevo accettare il fatto che fosse finito un pezzo di storia e che bisognasse attrezzarsi per progettarne un altro. Di certo il privato, per quanto sereno, non era più sufficiente a equilibrare la perdita del sociale.
In quella fase abbiamo avuto anche guai con la polizia – perquisizioni nel cuore della notte, momenti angosciosi -, però la solidarietà tra me e Caterina è stata molto forte; ci siamo anche preparati psicologicamente all’eventualità che finissi in galera. Ripensandoci, oggi, credo che lei abbia vissuto in uno stato d’ansia insostenibile, senza farmelo pesare, mentre io le scaricavo addosso tutti i miei incubi.
Certo, avevo i miei alibi – anche se oggi non mi sembrano più tanto validi. Per almeno tre, quattro anni – gli anni della crisi della politica – cera un continuo afflusso alla libreria di persone che ti riversavano addosso il loro malessere, ti chiedevano analisi del loro malessere, risposte al loro malessere. Logico che questo avvenisse perché io ero stato un personaggio pubblico in tante assemblee, avevo il carisma, come si suol dire; forse per qualcuno ero addirittura una figura paterna, proprio io con il mio terrore della paternità. Però, in questo modo, la giornata diventava un accumulo dei problemi e dei casini degli altri, tanto che a un certo punto appesi un cartello con scritto: “In questi anni ho ascoltato e ho compreso molto, ora sono stanco e non voglio parlare”.
Insomma, in quel periodo mi alzavo la mattina già terrorizzato dalla giornata che mi aspettava; la sera tornavo a casa e potevo fare solo la cronaca di queste miserie mentre un tempo avevo sempre cose mirabolanti da raccontare. La crisi che mi circondava da ogni parte faceva emergere la mia fragilità, una dimensione sempre presente, ma, di solito – nelle stagioni delle realizzazioni felici, dei progetti esaltanti e delle identità tranquille – ben occultata.
Caterina, invece, mi immaginava molto più solido, con i nervi saldissimi: mi aveva un po’ mitizzato. A quel punto mi è venuto il sospetto che nel nostro rapporto ci fosse stato qualche equivoco: evidentemente non ero riuscito a scoprirmi fino in fondo con lei.
E, forse, ormai era il momento meno opportuno per farlo. Comunque non ci riuscii: mi sentivo bloccato; qualcosa si era rotto nella nostra bella e facile comunicazione.
Poi incontrai Diana, e il mio innamoramento per lei fu l’esperienza più straordinaria ma anche più drammatica e dolorosa della mia vita sentimentale. Non mi sono ancora ripreso.