Il cerchio e la saetta

di Primo Moroni

Intervento scritto inviato al Convegno “Musiche contro: la canzone di protesta in Italia, da Cantacronache a oggi”, Sesto Fiorentino, 31 maggio e 1° giugno 1997.

Pubblicato in “Il de Martino”, Bollettino dell’Istituto Ernesto de Martino per la conoscenza critica e la presenza alternativa del mondo popolare e proletario, Novara, n. 7, 1997, pp. 39-46.

Era il 1975. La situazione era piuttosto confusa e Berlinguer aleggiava titubante sulle acque della politica italiana. I gruppi extraparlamentari andavano in pezzi così come erano premuti dalle turbolenze delle loro avanguardie di base e dal desiderio diffuso nelle segreterie di appoggiare il PCI inseguendo il “mito del sorpasso”. Era scoppiata la famosa “crisi della militanza” e migliaia di soggetti sociali formatisi nel ciclo di lotte ’69-’73 si aggiravano nella metropoli cercando il “che fare” di fronte alla formidabile offensiva padronale. Ristrutturazione produttiva, decentramento, uso politico della “cassa integrazione”, emergere del “ciclo del sommerso”, si abbattevano  come altrettanti bisturi sulla composizione di classe operaia e dei movimenti sociali creando uno scompiglio e uno spaesamento che non si era mai visto dal “luglio ‘60” in poi. Due le parole chiave del periodo: ricomposizione e territorio. Molte le risposte e le interpretazioni legate all’agire politico quotidiano. Tutte però protese a comprendere come muoversi sul “territorio” e come riunificare i soggetti diversi frantumati dall’offensiva capitalistica. Lo storico dilemma, già noto negli anni ’60, sul come risolvere il rapporto tra “composizione di classe e organizzazione”, subiva un’accelerazione e una moltiplicazione nel nuovo quadro economico e politico. Quello che però sembrava andare in pezzi era il rapporto “società-fabbrica come categoria storica”. Lo teorizzavano quelli della nascente Autonomia Operaia (organizzata o diffusa), lo vivevano sulla propria pelle i giovani degli immensi hinterland metropolitani che forse in fabbrica non volevano andare, ma che comunque vedevano nei propri territori solo “covi” del “lavoro nero” e precario e questo era il loro probabile futuro. Il problema diventava di colpo quello di inseguire il capitale sul suo terreno. Interpretarne le strategie e le linee di “fuga” dei grandi concentramenti industriali. In qualche modo frammentarsi insieme al suo muoversi sul territorio, fargli trovare il conflitto sotto altra forma, occupare invece gli spazi che venivano lasciati vuoti. Nascono così i primi Centri Sociali Occupati Autogestiti. In vecchie fabbriche dismesse. Il Leoncavallo al Casoretto storico quartiere operaio, in via Correggio verso la zona Fiera, in corso Sempione, al Fabbrikone verso il Giambellino, al Ticinese, ecc. Nascono quasi tutti insieme a distanza di uno due mesi l’uno dall’altro. Li occupano, danno loro vita, li inventano i militanti di diverse formazioni extraparlamentari disciolte che abbandonano le politiche delle segreterie e tornano al lavoro di quartiere dimenticando le vecchie divisioni ideologiche. Insieme a loro molti altri organismi di quartiere (comitati, associazioni, ecc.). All’inizio le occupazioni sono quasi sempre miste tra inquilini occupanti e militanti parzialmente ricomposti nello spazio sociale. Poi con il tempo lo spazio sociale tenderà ad autonomizzarsi dal comitato degli inquilini occupanti. I centri sociali della prima generazione sono dei veri e propri luoghi di organizzazione politica. Aprono solo qualche giorno della settimana. C’è il bar, la sala delle assemblee, lo spazio più ristretto per l’”attivo di gestione”. Ogni tanto si fa qualche festa popolare con la musica impegnata e politicizzata. Si cercano di costruire spazi di utilità per gli abitanti del territorio: sportelli di consulenza legale, spazi per bambini, spazi per attività creative, ecc. La somiglianza con le vecchie Case del Popolo è abbastanza evidente. Altrove i giovanissimi aprono la stagione dei Circoli del Proletariato Giovanile. Li aprono sottocasa, nei propri quartieri desolati e periferici. Hanno nomi piuttosto particolari come “La felce e il Mirtillo”, “Sesto Senso”, “La pera è matura”, ecc. È evidente la presa di distanza dai canoni conosciuti del linguaggio politico. In un breve periodo ne nasceranno più di cinquanta tra zone periferiche e hinterland metropolitano. Loro, quelli dei Circoli, invece sono sempre aperti e anzi vorrebbero esserlo notte e giorno. A loro, a quelli dei Circoli, non interessano le grandi strategie politiche. Sono nati quasi tutti verso la fine degli anni ’50, spesso sono figli di immigrati, hanno solo una qualche memoria mitica del ’68 e dell’”autunno caldo”. Sono rimasti silenziosi, quasi invisibili per molto tempo. Hanno avuto frequentemente generosi insegnanti di sinistra negli orrendi Istituti Tecnici Onnicomprensivi costruiti quasi esclusivamente per loro. Dagli insegnanti e dalla loro condizione di vita quotidiana hanno ricavato la percezione di una generale ingiustizia che governa le loro vite e la società intera. Per esperienza propria si rendono conto che non c’è nessun meraviglioso futuro da conquistare, ma che occorre invece rivendicare il bisogno di felicità qui e adesso. I loro circoli sono i luoghi dell’amicizia e della solidarietà, sono i luoghi dove “inventarsi un presente” possibile e desiderabile. Poche riunioni politiche, molte sedute collettive abbastanza simili a quelle dell’”autocoscienza femminile”. E poi la musica. Sempre, con i dischi, con le cassette. Musica che viene da lontano: dall’Inghilterra dove sta emergendo la scena punk con il suo “No Future”, dagli USA, dalla Germania. Ma più ancora la musica dei loro amici, quelli che fanno le prove nelle cantine delle case popolari, che fanno musica per se stessi e per i loro amici, che pensano che l’intera industria discografica sia una grande truffa e che i concerti dei loro cantanti amati debbano essere gratuiti perché loro guadagnano già abbastanza con i dischi. Ci vanno ai concerti ma per “sfondare”, per entrare gratis, per fare come quelli del film di Ferreri “Perché pagare per essere felici?”. In buona parte è anche per merito loro che un impresario come David Zard abbandonerà la piazza italiana per molti anni. I Circoli vogliono molto, ma per loro è il minimo. Scendono dai loro quartieri il sabato pomeriggio. Invadono il centro rutilante di luci e di merci desiderabili. Praticano le autoriduzioni nei cinema di prima visione leggendo nell’intervallo, agli altri spettatori stupefatti, i loro documenti in cui rivendicano il diritto alla partecipazione piena a un uso ricco della città e della vita. Si considerano nelle riserve e scendono nel territorio dell’”uomo bianco” per riappropriarsi di qualcosa che è stato loro negato. Sono anche e quindi “Indiani metropolitani”. Dureranno poco, anzi pochissimo. Pressoché incomprensibili per i “politici” che pure tenteranno di reclutarli; fragilissimi di fronte alla repressione che avanza su tutti i fronti e come improvvisamente coscienti dell’impossibilità concreta di realizzare i loro desideri si disperderanno nei labirinti metropolitani. Molti travolti dal grande drago verde dell’eroina, altri ricondotti alla “norma” della nuova militanza politica, altri resi silenziosi e attoniti in attesa di un appiglio possibile (poco più tardi sarà la controcultura punx) e altri ancora (non molti) affluiti nei gruppi armati clandestini come una scelta d’ordine e di ribellione di fronte allo sfascio generale. Ma loro hanno lasciato una traccia profonda che verrà recepita anche dai Centri Sociali. E verrà recepita dalla seconda generazione dei CSOA, quelli dei primi anni Ottanta. Certo a fianco di questo percorso sopravvivono anche  alcuni Centri Sociali più specificatamente politici (fra tutti il Leoncavallo, che però nei primi anni ’80 è un luogo piuttosto chiuso con una discreta presenza di militanti dei gruppi armati clandestini), ma la seconda generazione ha caratteri più specificatamente controculturali e il suo punto di unione è la pratica punx. A Milano al Virus (dove si fondono percorsi politici e convivenza con aree politiche libertarie), a Pisa, a Torino, a Bologna, ecc. I Punx sono immediatamente riconoscibili per abbigliamento, estetica e stili di vita. Sono indubbiamente la nuova versione della lunga “rivolta dello stile” così come viene raccontata da Hebdige nel suo “Sottocultura, fascino di uno stile singolare”. (Per inciso Hebdige e compagni di studio appartengono alla scuola di Birmingham e, vedi un po’ la bizzarria, si considerano di scuola gramsciana, nel loro ricercare i processi che stanno alla base della nascita e della morte delle controculture). I Punx sono convinti che la società che viene sia dominata da una sterminata mercificazione e falsificazione mediatica. I politici, se si esclude una piccola minoranza libertaria, li considerano poco più che una degenerazione piccolo-borghese. I sociologi li studiano come degli insetti per catalogarli nelle loro tassonomie. Loro invece trasformano il corpo in una macchina comunicativa trasgressiva e ribelle. Loro inventano luoghi, spazi sociali esclusivi e non mercificati. Loro intendono distruggere tutte le convenzioni e le falsificazioni legate sia alla tradizione comunista ortodossa (l’utopia che diventa un incubo), sia a quella democratica progressista. Su questi percorsi la musica riveste un’importanza considerevole. La musica punk è puro rumore, è volutamente distruzione della “grande truffa del rock and roll”. Nei Centri Sociali punk e simili i concerti si susseguono a ritmo ininterrotto. E i gruppi che suonano arrivano da tutta Europa (Est compreso) anche se molto forte è la scena italiana. Le regole sono molto rigide. Chi suona in questi luoghi deve assolutamente appartenere al circuito delle autoproduzioni e delle autodiffusioni. Qualsiasi contaminazione con circuiti istituzionali o commerciali fa diventare il “gruppo musicale” immediatamente incompatibile con l’accesso a questi luoghi. È la stagione rigorosa della autoproduzioni e delle autodiffusioni legate a un circuito di centinaia di fanzines che vengono redatte su tutto il territorio nazionale. Una parte molto rilevante di queste pubblicazioni avrà come tema centrale delle loro riflessioni la musica autoprodotta. Alvin Tofler nel commentare questo circuito chiuso e rigoroso che si andava sviluppando qua e là per il mondo, parlerà di una generazione di prosumers (produttori e consumatori senza distinzione e separazione tra le due funzioni). Nella prima metà degli anni Ottanta le “sale musica” o “sale prove” degli spazi sociali, ma anche più in generale nei seminterrati dispersi nelle periferie, saranno luoghi fondamentali di riferimento e ricerca. L’attività musicale viene vissuta come un mezzo fondamentale di comunicazione tra i giovani. Ne viene teorizzata la funzione di complemento di formazione dell’identità e, in questo senso, c’è spesso da parte dei soggetti il tentativo di ridefinirla nelle forme e nei contenuti per adattarla alla propria definizione del mondo. Molto raramente viene vista come possibilità di un raggiungimento “veloce”, di un eventuale successo o arricchimento, ma molto più concretamente viene considerata un formidabile strumento di socializzazione e di affermazione “politica” della propria differenza soggettiva e collettiva. E se la battaglia contro l’eroina è stata una dei cardini dei Centri Sociali della seconda generazione, la ricerca di nuovi linguaggi, letterari e musicali sarà uno degli strumenti considerati prioritari per sottrarsi alla minaccia esterna proveniente dalla diffusione dell’eroina. In una lunga ricerca del 1987-88, svoltasi nelle zone sud della metropoli milanese, una frase ricorrente era “Se non avessi avuto la musica sarei diventato un tossico”. E in tutta chiarezza la musica veniva interpretata come “musica suonata” direttamente dai soggetti e non passivamente subita. D’altronde il tema eroina era fortemente presente come soggetto delle canzoni, a dimostrazione del fatto che “le mie canzoni parlano della mia vita” come diceva un componente dei Wretched, uno dei gruppi musicali intervistati. Un esempio di rielaborazione musicale del problema eroina è ampiamente riscontrabile in questa canzone dei Silver Surfer, del quartiere Torretta, testo che apparentemente si riferisce a un rapporto con un donna ma che, per ammissione degli autori, è riferito all’esperienza dell’eroina.

Posso controllare la mia mente

Oh piccola cara mi fai impazzire

ma il mio amore per te non è così profondo.

Ho fermato il tuo potere su di me

non posso non voglio fare ciò che tu vuoi.

Oh sto perdendo di nuovo la testa.

Oh piccola cara mi torni sempre in mente

ma non lo voglio più!

Quando corro veloce il ricordo di te scivola via.

Cosa ne pensi? Okay mi sento bene.

Bene, sono andato a est sono andato all’ovest

sono andato via ma tu mi rincorri così veloce

sto perdendo il controllo

Lo so, ma non capisco il perché.

È così forte, è così bella.

Ma adesso posso controllare la mia mente.

Appare evidente tutta la drammatica ambiguità del rapporto esistenziale con la “sostanza”. Appare evidente che si sta cercando di costruire delle canzoni di lotta che diventeranno sempre più precise in alcuni brani come questo testo dei Wretched.

La tua morte non aspetta

…………..

Sei nelle sue mani

Quando vuoi la puoi toccare

La morte sai ti segue

È impossibile fuggire

È sempre in agguato cercando l’occasione

È la tua seconda ombra è dietro di te

Forse credi che la morte possa aspettare ancora

Forse credi che la fine non sarà certo domani

Mai è troppo tardi per cercare di riuscire

Ad evitare una fuga che a niente può servire

Scaccia la paura

Affronta il tuo destino

Scaccia la paura

Affronta le tue scelte

E vivi ogni momento non perdere un istante

Un altro giorno è passato e indietro non ritorna.

Cerca dentro di te tutta la tua rabbia

Cerca dentro di te tutta la tua forza

L’energia per continuare e per restare vivo

La voglia di cambiare, la voglia di cambiare!

Come si vede le risposte e le soluzioni sono costantemente ricercate all’interno degli individui stimolandone le possibili reazioni contro le situazioni negative, ma la capacità analitica di esprimere un vissuto simile a quello di migliaia di altri giovani e una parallela capacità tecnico- musicale senz’altro innovativa permisero a questi gruppi di diffondere dei messaggi che erano contemporaneamente una forma di lotta sociale e un modello di comunicazione aggregativa. Nel suo essere indubbiamente marginale la stagione dei CSOA di seconda generazione introdurrà un fortissimo rinnovamento della scena culturale italiana. La sua separatezza dal resto della società, pur essendo un limite, sarà per qualche anno un territorio protetto e uno “stile di vita” contro una società esterna vissuta come interamente nemica. Nella seconda metà degli anni ’80 ci saranno peraltro alcuni tentativi di fondere queste esperienze controculturali con quelle dei Centri Sociali più accentuatamente politici. Vale per tutti l’esperienza dell’Helter Skelter che per qualche mese avrà uno spazio proprio autogestito all’interno del Centro Sociale Leoncavallo. La convivenza durerà abbastanza poco nonostante l’alto livello della programmazione dell’Helter Skelter e l’enorme afflusso dei frequentatori. E credo che in un episodio come quello, e in altri consimili, vada poi ricercata la ragione dell’evoluzione assai complessa dei Centri Sociali della generazione attuale. È a partire infatti dall’87-’88 che tutti i Centri Sociali cominciano ad attrezzare  gli spazi in funzione di un’apertura quotidiana e di una programmazione musicale, teatrale, culturale costante e martellante. Quasi concorrenza con il resto della programmazione cittadina. È una fase d’oro quella che va dalla fine degli anni ’80 ai primi anni ’90. La lunga e sotterranea metabolizzazione controculturale degli anni ’80, la sua costante ricerca di riferimenti internazionali e culturali nei ghetti di tutte le metropoli deindustrializzate dell’occidente, l’odio per l’establishment spettacolare, il bisogno di una nuova progettualità politica, producono un cocktail assai complesso all’interno del quale finiscono per convivere sia la rielaborazione della cassetta politica degli attrezzi legata ai movimenti dei tardi anni ’70 (l’autonomia operaia, il movimento ’77, ecc.), sia il tentativo (per un certo periodo riuscito) di conciliare questa rivisitazione con la necessità di una propria e autonoma programmazione culturale strettamente intrecciata con i propri vissuti quotidiani. È dentro  questi orizzonti che nasce la breve ma fortemente incisiva stagione delle “posse” e del rap all’italiana che fonde in una nuova sintesi creativa sia la stagione della musica esistenziale punk sia l’eco lontana e metabolizzata del canto sociale e di lotta mentre pressante e progettuale diventa la necessità di rendere operante l’appello a “distruggere il cerchio, rompere la gabbia, creare e organizzare la nostra rabbia”. Ma il tornare a mischiarsi con gli affari del mondo e il desiderio di essere forza, progetto e nuova forma possibile di “rappresentanza” extrasistemica, non erano e non sono certamente privi di pericoli e, probabilmente, il processo che si è determinato era pressoché inevitabile. Il problema era e resta come governarlo. Come ricomporre le diverse figure, bisogni, attese e progetti, che si mischiano negli spazi sociali. Se da una parte la radicalità sociale quotidiana, che aspirava a fondere ininterrottamente espressione culturale e musicale con il rifiuto di qualsiasi forma mercato – ancorché “legittima” e tesa a produrre egemonia nel campo avversario – finisce per creare un circuito professionale e semi-professionale di gruppi musicali corteggiati dalle majors discografiche e oramai contesi anche da manifestazioni ufficiali o dai locali della “nuova borghesia”; dall’altra il bisogno di autolegittimazione, come luoghi riconosciuti dello spazio urbano, induce la tentazione di ospitare o ingaggiare grossi personaggi dell’establishment spettacolare. Non è certo qui in discussione la “qualità” delle proposte, ma la possibile deriva utilitaristica della programmazione musicale e culturale. Una deriva che produce un pubblico di “fruitori” e che riduce gli spazi e la tensione della produzione autonoma innovativa e di rottura o di ricerca. Del resto nei primi anni ’90 tutto ha viaggiato molto velocemente. I Centri Sociali si sono moltiplicati in tutta Italia e il melting generazionale, politico e culturale è diventato quasi indecifrabile nel suo essere unitario e contraddittorio. Il movimento della Pantera ha fornito un impulso formidabile soprattutto ai Centri Sociali romani, mentre lo studentesco “movimento dei fax” ha contribuito ad abbattere le ultime diffidenze nei confronti delle nuove tecnologie. I Cyber-punk, prima, e l’area della “nuova autonomia”, dopo, si muniscono di propri Bbs (reti telematiche autogestite). Il numero dei frequentatori è aumentato in modo impressionante mentre i collettivi di gestione sono rimasti pressoché gli stessi negli ultimi sette-otto anni. I nuovi frequentatori hanno esigenze diversificate. Pochi sono, nel caso milanese, i drop-outs o gli emarginati. Il panorama sociale ha subito uno sconvolgimento tellurico e la programmazione serale dei Centri Sociali si è trovata a fare i conti con un tipo di frequentatore molto esigente mentre la scena musicale e culturale alternativa e di ricerca (dopo il consolidarsi, ma anche lo standardizzarsi del fenomeno “posse”) appare ferma e ripiegata su se stessa. La tentazione del ricorso al mercato spettacolare (per quanto di qualità possa essere) è quindi avvenuta in modo quasi inevitabile e spontaneo. L’errore a monte è stato probabilmente quello di separare la programmazione musicale e culturale dai percorsi di tentata ricomposizione politica.