Penultimo contributo in vista de La fine dell’uomo, di Goffredo Fofi.
Autodistruzioni nucleari nel cinema del secolo scorso (dal 1951 al 1970)
Da: Cinema e fantascienza (Goffredo Fofi – Marcello Flores)
Quaderno A.I.A.C.E. n. 15, 1975 Torino
1951 Five, regia e sceneggiatura di Arch Oboler. L’atomica ha distrutto l’umanità, lasciando vivi quattro uomini e una donna. Alla fine, restano solo un maschio e una femmina per dar vita a un nuovo mondo. Il tema della fine del mondo per esplosione atomica si presenta per la prima volta sullo schermo, ma il film non sembra avere altri meriti.
1958 The World, the Flesh and the Devil (La fine del mondo) di Ranald MacDougall, dal romanzo di Matthew Phipps Shiel, interpretato e prodotto da Harry Bellafonte. Dopo la guerra atomica, sopravvivono solo tre esseri umani: due uomini uno dei quali un negro, e una donna. La nuvola rossa, il classico romanzo di Shiel da cui il film si dice tratto, non c’entra quasi per niente. Quel che sta a cuore a Bellafonte è dimostrare l’assurdità dei tabù razziali, e la possibilità di rapporti umani diversi: nel finale (ma al posto della parola FINE c’è la parola INIZIO) il bianco e il nero fanno pace e la donna sta con entrambi. Ciò nonostante, il film è convenzionale e freddino. Dimostra però che un’epoca, quella della guerra fredda, è alla fine, e che si preparano cose nuove nella società americana.
1959 On the beach (L’ultima spiaggia) di Stanley Kramer, scen. John Paxton dal romanzo di Nevil Shute, int. Ava Gardner, Fred Astaire, Gregory Peck. Con la sua abituale pesantezza nel porgere i messaggi che ritiene fondamentali, Kramer mette in scena una fine del mondo la cui solennità kennediana è, oggi, piuttosto irritante. A guerra atomica conclusa, sono sopravvissuti solo gli australiani, che attendono il fall-out radioattivo risolvendo i loro problemi sentimentali, cercando la morte nelle gare di corsa, o facendosi distribuire dal welfare-state le pillole per morire senza star male. Il tema era serio, e il soggetto di Shute ottimo, ma Kramer non ha mai saputo rinunciare ai grandi organi.
1961 The Damned (Hallucination) di Joseph Losey, scen. Evan Jones dal romanzo “Fossa d’isolamento” di H. L. Lawrence, int. Macdonald Carey, Oliver Reed, Viveca Lindfors, Alexander Knox. Uno scienziato dirige un esperimento governativo: dei bambini radioattivi isolati in un laboratorio sotterraneo sono la sola speranza di sopravvivenza umana (e inglese), nel caso assai probabile di una guerra atomica. “Una fantascienza contemporanea, in cui l’invasione dell’avvenire ha già sommerso il presente. Il futuro è dovunque. ‘Credevo – spiega il candido americano protagonista – che l’Inghilterra fosse un paese pieno di vecchie signore che prendono il tè, e vedo che la violenza è dovunque’” (Torok). In superficie c’è la violenza dei “teddy boys”, sotto c’è quella dei ragazzi-vittima, in mezzo, nel bunker sulla roccia, quella degli scienziati-politici, lucidamente spietati: un universo terrificante e senza scampo, che dà per scontata l’autodistruzione dell’umanità, e ne vede i segni nella violenza quotidiana di una società condannata. L’apporto di Losey alla SF, dopo la lontana e ottimistica favola pacifista del Ragazzo dai capelli verdi, è fondamentale. Prima di Arancia meccanica, e negli anni dell’ottimismo kennediano della fanta-politica, la visione cupa e disperata di The Damned non si dà illusioni ed è coerentemente pienamente negativa.
1962 Le Nouveau Monde (Il mondo nuovo) di Jean Luc Godard, episodio del film Rogopag, ovvero Laviamoci il cervello. Godard entra nel futuro atomico con una novelletta inquietante sulle trasformazioni antropologiche, comportamentali, di fronte alla notizia di un’esplosione nucleare nel cielo sopra Parigi. Tutto è come prima? La gente ascolta i pareri “rassicuranti” degli esperti, ma qualcosa è cambiato dentro, negli individui. Il rapporto abituale tra cause e effetti è saltato. L’amica del protagonista si muove con criteri morali diversi, e al suo uomo sconcertato dice: “io ti ex-amo”.
The Day the Earth Caught Fire (…e la terra prese fuoco) di Val Guest, scen. Guest e Wolf Mankowitz. Da un dato di partenza scientifico (l’esplosione contemporanea di due atomiche ai due poli “dirotta” la terra avvicinandola al Sole e destinando l’umanità a morire di caldo) si sviluppano con precisione minuziose descrizioni di comportamenti, che costituiscono la parte migliore del film, in questo senso quasi documentario. Infine si tenta una nuova esplosione per riportare il pianeta nella sua orbita, ma il fil tace sui risultati.
Panic in Year Zero (Il giorno dopo la fine del mondo) di e con Ray Milland, scen. Jay Simms, John Morton, Ward Moore. La fuga dalle città verso piaghe montane di una famiglia middle-class dopo l’atomica. Ma il conflitto cessa improvvisamente com’era cominciato e, caso davvero strano, senza fall-out. I nostri sopravvissuti tornano a casa tranquilli. Efficace nella descrizione dell’esodo, ma meno realistico di 2000: la fine dell’uomo.
La Jetée di Chris Marker. Un “foto-romanzo”, fatto di foto, senza movimenti di macchina, commentato da un narratore fuori-campo. In un mondo atomizzato e costretto a vivere sottoterra in attesa dell’ultima fine, uno dei vinti è utilizzato dagli scienziati vincitori per tornare indietro nel tempo, onde averne aiuti, e nel passato trova l’amore ma anche la morte, rivivendo il momento che aveva turbato la sua infanzia, una sensazione più che un fatto. Un gioiello di SF intellettuale, molto superiore al tentativo, ancora nel campo dei viaggi nel tempo, di Resnais (Je t’aime, je t’aime).
1963 Dottor Strangelove, or how I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb (Il dottor Stranamore, ovvero come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba) di Stanley Kubrick, scen. Kubrick, Terry Southern e Peter George dal romanzo di quest’ultimo. Debutta fragorosamente nella SF il suo più grande regista. Nonostante la tematica del tempo sembri oggi superata (ma lo è poi davvero?), il film sfugge all’invecchiamento grazie alla beffarda, scatenata satira del militarismo.
1965 Crack in the World (Esperimento I.S.: il mondo si frantuma) di Andrew Marton, scen. Philip Yordan, con Dana Andrews. Scienziati alla ricerca, in Africa, di fonti sotterranee di energia, usano l’atomica per andare oltre la crosta terrestre, e provocano terremoti a catena. Disastri su disastri finché la natura, autonomamente, non rimette le cose in ordine con una nuova possente esplosione che lancia nello spazio un pezzo di terra, cioè un nuovo satellite, e ristabilisce la solidità di quel che resta. Abbastanza ben fatto tecnicamente.
Fail Safe (A prova di errore) di Sidney Lumet. Perché la terra sia libera, c’è chi sostiene la guerra preventiva contro il mondo comunista, col suo totale annientamento atomico. I buoni vigilano, ma quando per puro errore tecnico si scatena il piano che porta alla distruzione atomica di Mosca, al Presidente americano non resta, per evitare la terza e ultima guerra mondiale, che ordinare la distruzione di new York, dimostrando così la buona fede ai sovietici. Henry Fonda continua ad essere l’immagine mitica dei sogni di Kennedy.
The War Game (Il gioco della guerra) di Peter Watkins. Come It Happened Here, anche The War Game è un documentario di fanta-politica, e descrive cosa succederebbe in caso di bombardamento atomico sull’Inghilterra. La ricostruzione è impressionante, ma il suo realismo è stranamente astratto: si assiste a un gioco, e se ne è molto più coscienti che con un film di fiction. Fa più paura il finale comico e rabelaisiano di Stranamore.
1969 Ecce homo: i sopravvissuti di Bruno A. Gaburro, con Irene Papas, Frank Wollf, Philippe Leroy. Chi l’ha visto? Il soggetto è interessante: dopo l’atomica restano cinque sopravvissuti, ma tre fanno il classico triangolo e si eliminano a vicenda. Restano un nuovo Adamo e una nuova Eva.
1970 Il seme dell’uomo di Marco Ferreri, scen. Ferreri e Sergio Bazzini. Il primo film adulto di SF in Italia, zeppo di idee e più classico, nel tema e nello svolgimento, di quanto non si pensi. Ferreri (o Bazzini) conosce certo la buona letteratura di SF, ma invece di tentare una lettura rovesciata del genere, come farà col western, si getta a corpo morto nell’invenzione dentro il tema (la fine del mondo dopo l’atomica) portandovi dentro il suo particolare humour, la sua particolare disperazione, e le sue particolari ossessioni (la donna, il cibo, i mass-media, ecc.). Non è il miglior film di Ferreri, ma è certo un ottimo film di SF.