Riprendiamo da “La città invisibile (Quindicidì), Cultura e spettacolo” n. 1, gennaio 1979, testata-laboratorio degli allievi dell’Istituto per la formazione al giornalismo, un’intervista a primo Moroni sull’editoria diretta dopo la mostra del libro alternativo che si è tenuta a Piacenza a fine ottobre 1978. Questa intervista, firmata con due sigle D.H. e C.P., integra idealmente un altro intervento di Primo Moroni e Bruna Miorelli sulla comunicazione antagonista “Dieci anni all’inferno – storia dell’altra editoria” pubblicata in “I fiori di Gutenberg” (a cura di P. Alfierj e G. Mazzone), Arcana Editrice, Roma 1979 e consultabile in rete su Dinamo Press
Intervista a Primo Moroni (ottobre 1978)
“La mostra dell’editoria diretta di Piacenza è un episodio iniziale”, ha detto Moroni, “di un qualche cosa che si svilupperà nel tempo, è un esperimento casualmente legato nell’occasione al convegno della Cooperativa scrittori con questo slogan di ‘Piccola Francoforte dal basso’ ovviamente con quanto di ironia c’è nella definizione. Quella che si svilupperà successivamente come mostra, come momento di studio, di seminario – questa dovrebbe essere la caratteristica della mostra in futuro – è difficile definirlo adesso; avrà comunque caratteristiche molto diverse da quelle attuali. Per quanto riguarda invece l’origine di tutti questi editori in questi ultimi anni, come sono nati, come sono collegati, ciò che li diversifica e ciò che li unisce, questo è un discorso molto diverso”.
Quali sono i precedenti storici dell’editoria diretta?
“Partirei da alcune definizioni schematiche di origine storico-culturale di quest’area dell’editoria diretta che in realtà noi abbiamo sempre definito con un termine più proprio ‘area della comunicazione antagonista’, ponendo come inizio di tutto il problema, per quanto riguarda l’Italia, una data di tipo storico-politico di comportamenti di massa che è il luglio ’60. Nel luglio ’60 vi è stata una grande rivolta popolare contro il governo Tambroni che non è stata solamente l’emergere di un comportamento spontaneo, ma anche il consolidamento, l’apparire sulla faccia della società di una nuova forma di composizione di classe, di nuove forme di intendere la politica che si sarebbero consolidate successivamente. Questo per quanto riguarda l’Italia. In sé, invece, storicamente questo fenomeno di autogestione dell’editoria e della cultura, delle riviste e dei giornali ha avuto il suo centro massimo in questo secolo nella Repubblica di Weimar che riproduceva, moltiplicati per dieci, molti dei fenomeni che sono emersi in Italia negli ultimi dieci anni. Esistevano l’editoria delle donne, quella dei bambini, quella politica, quella degli omosessuali, quella del gruppo delle comuni, quella della ricerca sul corpo, quella della psicoanalisi, esistevano cioè centinaia e centinaia di giornali gestiti da gruppi di base. A questi si aggiungevano anche i gruppi teatrali, esistevano infatti duecento gruppi teatrali di strada di cui alcune grosse forme sono state poi tramandate, come quella di Bertolt Brecht. Dal basso esistevano poi forme di comportamento diverse che erano ampiamente codificate anche come stile di lavoro, si occupavano di come comporre i giornali, di come realizzarli graficamente, eccetera”.
E in Italia?
“L’Italia, invece, a causa del fascismo e di altri problemi connessi allo sviluppo del dopoguerra, è rimasta tagliata fuori da questa esperienza di formazione di una gestione di una comunicazione editoriale e culturale antagonista a quella ufficiale anche se democratica o frutto dei partiti storici nati dalla resistenza. Nel dopoguerra vi sono stati episodi molto piccoli, tentativi di creare organismi di questo tipo. Un esempio sono le edizioni Avanti legate in coincidenza e in contraddizione col Partito socialista e dirette da Gianni Bosio che ricostruiva la storia della classe, cioè dei comportamenti di classe fuori dall’istituzione del partito attraverso una storia orale, una registrazione e una ricerca sul mondo contadino e in parte anche su quello operaio. Uno egli episodi più significativi di quest’area precedente agli anni ’60, e in realtà allora poco conosciuta, è l’attività di Danilo Montaldi che andava con il registratore a raccogliere le esperienze della vita vissuta dei marginali, della malavita, della prostituzione ma anche del militante politico di base che aveva vissuto in maniera contraddittoria il rapporto con l’istituzione-partito visto come momento di potere. Col luglio ’60, invece, in parallelo con la grande immigrazione che avrebbe formato l’operaio massa, nasce in una serie di circuiti politici per quanto minoritari, la necessità di intervenire sul piano culturale e editoriale creando riviste e gruppi di studio che rifondassero certe forme di interpretazione sia dell’azione culturale dal basso che della teoria politica a cui potersi riferire, nella fattispecie a quella marxista. I due episodi più importanti, ormai ultranoti ma allora assolutamente di avanguardia e con tirature bassissime, erano i Quaderni Rossi di Panzieri e i Quaderni Piacentini di Bellocchio. Da lì è iniziato un percorso che ha formato l’abitudine dei gruppi politici di interpretare la rivista come momento di intervento politico su determinate contraddizioni dello sviluppo della società, applicando, quindi, all’inizio, uno schema rigidamente leninista. Si sono formati progressivamente una serie di collettivi politici o culturali che intervenivano vuoi nel campo della poesia vuoi nel campo della cultura o in quello della psicoanalisi. Per la psicoanalisi ricorderei l’esperienza della rivista Il corpo; per quanto riguarda invece l’operaismo e l’intervento sulla nuova composizione di classe, organizzazione del lavoro, mercato del lavoro, la nocività, non si possono dimenticare il seguito dei Quaderni Rossi cioè Classe operaia e più tardi i collettivi legati a Potere Operaio fino a Lotta Continua, fino all’esplosione del ’68 e quindi ad una marea incredibile di giornali, espressione diretta di organismi politici”.
E per quanto riguarda invece nuove case editrici che nascono sulla spinta di questi bisogni culturali, ma soprattutto politici?
“Una serie di piccoli editori, diciamo Savelli, Mazzotta (Savelli esisteva già dal ’63-’64 come gruppo trotzkista) e più tardi Guaraldi, Bertani, Musolini creavano infatti delle case editrici ponendosi come obiettivo, di fatto, quello di rispondere alle esigenze di un tipo di lettore diverso creato dalle stesse lotte dal basso di vaste masse giovanili però anche di buona parte, a quel punto, di componenti operaie non omogeneizzate nell’istituzione-partito ma interne al sindacato o comunque attive in forme di lotta di fabbrica. Questo in un rapporto dialettico base-vertice che consisteva nel fatto che il singolo collettivo di fabbrica produceva l’indagine sulla nocività, sul lavoro alla Breda o all’Ipca di Ciriè e l’editore – i vari Savelli, Mazzotta, ecc. – raccoglieva questo opuscolo, lo ampliava, lo trasformava in prodotto editoriale finito, immettendolo sul mercato usando comunque i circuiti tradizionali della grande distribuzione che poi sono le Messaggerie o la Ndi. Questa è stata una fase intermedia . Esistevano quindi due forme di comportamenti, una ad imitazione della grande editoria con contenuti però diversi, cioè i piccoli editori nati a cavallo del’68, e una invece che proseguiva dal basso nel produrre soprattutto riviste, opuscoli di immediata utilizzazione politica nell’azione di intervento sul quotidiano. Questo tipo di situazione è durata grosso modo fino al referendum sul divorzio. A quel punto si era già verificata di per sé, dal basso, una serie di fenomeni che facevano sì che questi editori avessero totalmente o in buona parte fallito il loro compito di raccogliere questa richiesta culturale dal basso di prodotti diversi di tipo editoriale”.
C’erano dunque, già in partenza, i presupposti perché questi editori si trasformassero in brutte copie di editori tradizionali?
“Sia per il dilettantismo della gestione, sia perché entrando nel grande circuito della distribuzione questi editori erano stati costretti ad impostare un livello manageriale di gestione dell’editoria stessa che gli richiedeva di produrre un certo numero di titoli all’anno, si determinò l’ampliamento della redazione, l’ampliamento del personale e di fatto quindi lo sfruttamento del lavoro salariato interno, quasi sempre con caratteristiche di lavoro nero. I compagni che lavoravano all’interno di queste edizioni di sinistra non erano regolarizzati come situazione sindacale e avevano uno stipendio chiaramente inferiore a quello che avrebbero recepito da un grande editore. Occorre però precisare che all’interno di tutta l’editoria italiana, anche di quella democratica, non ci sono mai stati comportamenti realmente corretti nel rapporto editore-dipendente. Anche i grandi, tipo Einaudi e Feltrinelli, hanno vissuto per anni e tuttora vivono attraverso il concetto di collaborazione esterna. Questo fenomeno di sfruttamento del lavoro mentale e del collaboratore esterno si è riprodotto con un aspetto più odioso all’interno della media o piccola editoria di sinistra che si è coperta con questo alibi ideologico”.
C’è stato un momento in cui questi nuovi editori sono stati in qualche modo uno stimolo o si sono invece limitati a rispondere a delle richieste che si andavano consolidando?
“Il piccolo e medio editore, reduce del ’68, si è trovato a seguire la richiesta quando questa si era già formata, a fare l’offerta quando la domanda era già consolidata, avendo quindi un ruolo parassitario del progresso civile e culturale della richiesta del lettore dal basso. Esemplare in questo senso potrebbe essere Savelli: c’è la moda della crisi della militanza nel movimento e Savelli crea la collana ‘il pane e le rose’; gira nell’aria che Nietzsche forse viene riscoperto da una vasta fascia di lettori allora inventa tre o quattro libretti antologici su Nietzsche fino ad arrivare al ridicolo che forse c’è un certo interesse per la tematica della morte nella società occidentale, e immediatamente, in un mese, stampa il libro sulla morte. Non c’è né un progetto politico, né un progetto culturale che contraddistingua ormai questi editori ma un annaspare di qua e di là in un tentativo dilettantesco di imitare lo stesso schema dei grandi editori. Lo strumento rivista è stato dal ’68 in avanti l’asse portante da cui nascevano poi opuscoli e piccoli libretti che erano antagonisti a questo stile di lavoro della piccola e media editoria di sinistra. Le riviste erano spesso massicce, corrispondevano a libri di 400-500 pagine; spesso erano numeri monografici, inseribili nelle collana di un editore anche per il livello qualitativo che esprimevano. La periodicità le faceva diventare abitudine e necessità di acquisto di una serie di aree di lotta. Quasi sempre questo materiale nasce dalla constatazione di contraddizioni di classe o di lotta, quindi la fonte da cui si ricava il materiale per comporre lo strumento libro o rivista è quella a cui si è strettamente legati sia come editori, come gestori di quella rivista, sia come necessità di lotta politica. Questo tipo di necessità ha avuto alti e bassi a seconda, evidentemente, della composizione, dei momenti di lotta, della nascita dei gruppi antagonisti extraparlamentari, poi neoparlamentari, poi autonomi, poi marginali, in un complesso panorama di diversificazione sia culturale che ideologica. Questo sempre all’interno di uno stesso schema di opposizione a quella tradizionale dell’organizzazione politica e quindi anche dell’industria dell’editoria e della cultura esistente in Italia. Ha avuto momenti diversi che andavano dal semplice uso dello strumento libro o rivista come aspetto della propaganda del proprio gruppo politico, all’esistenza di gruppi esterni, collettivi di lavoro che producevano al di fuori di questa logica”.
Come si è riflessa la crisi della militanza più o meno tradizionale su questo tipo di editoria?
“Dalla decadenza di questo modo di fare politica è nata una nuova forma di comunicazione politica che variava la precedente e si poneva nel più vasto territorio della crisi del rapporto col partito-madre, riprendendo in mano totalmente tutta la riflessione sulla funzione non solo dei comportamenti politici antagonisti nella società del capitale ma anche dell’uso della comunicazione. Questo fenomeno è iniziato grosso modo nel ’75, si è rivelato nella sua intensità dopo il 20 giugno e ha avuto il suo momento emergente nel movimento ‘77 e nei fatti di Bologna, con un lavoro di decine e decine di giornali, libri, scelte culturali diverse che duravano da due anni nella più completa trasversalità, cioè oscurità nella comprensione da parte del sistema, ma chiarissimi nella loro estensione territoriale nelle varie regioni d’Italia. Esistevano prima del movimento ’77 almeno 50-60 giornali che uscivano con una periodicità di 5 o 6 volte l’anno con le stesse tematiche che poi sarebbero emerse nel movimento ‘77. Non era quindi un caso. Questo dà anche la chiave di quello che si intende per comunicazione antagonista: espressione cioè di comportamenti reali. Non si trattava di riflessioni astratte da proporre come prodotto separato dalle lotte al lettore estraniato che poi lo acquista in libreria o in edicola”.
Come veniva posto il problema della diffusione dal punto di vista organizzativo?
“Occorrevano dei punti di vendita, delle librerie, una capacità di distribuzione che paradossalmente, pur nella sua maggiore schematicità e rozzezza, era favorita dall’esistenza dei gruppi precedenti. Con la crisi della militanza, e quindi del volontarismo, si apriva un grosso vuoto. In questa fase non ci si era posti il problema della diffusione cioè della distribuzione di quei materiali. Dal basso, invece, altre forme di organismi cominciavano a scatenare l’apertura di catene di librerie definite poi, nella loro discontinuità e disomogeneità politica, circuito Punti rossi; sono nate cioè 50, 60, 70 librerie nell’arco di due anni di cui una trentina si sono consolidate come presenza sul territorio in nove o dieci città diverse: Padova, Milano, Torino, Genova, Bologna, Firenze, Roma. Rapidamente criminalizzate nel rapporto col potere, viste come centri eversivi di produzione, esse andavano, lentamente, in una serie di convegni iniziati nel ’75, a chiarire che ruolo dovessero avere nella gestione di questo negozio che è la libreria, visto però come centro di agitazione culturale e non solo quindi come punto di vendita di merci. Questo fenomeno di crescita di librerie, centri di documentazione, circoli, in parte risollevava il problema della diffusione. Erano luoghi di aggregazione e di interscambio di notizie per il movimento, definite anzi in maniera più precisa strutture di servizio intermedie al movimento che non davano una linea ma erano rappresentative della complessità delle contraddizioni del movimento stesso; quindi non emissione di un partito politico o di un gruppo politico organizzato. Queste librerie andavano a riunirsi – e il fenomeno è ancora in corso – in cooperative ad area regionale mantenendo ognuna la propria indipendenza. La cooperativa diventava quindi magazzino di distribuzione del materiale del movimento. Si verifica anche che gli stessi magazzini di distribuzione o librerie divengano editori delle riviste. La moltiplicazione di queste duecento testate dava la dimensione di media che non è mai stata totalmente avvertita dai grandi strumenti di informazione. Vi è stato un progressivo interessarsi dei teorici della politica a questi problemi che riguardano la struttura stessa della distribuzione e della gestione tipografico-editoriale dei prodotti del loro lavoro mentale. Vi è in corso quindi, nell’area dell’editoria diretta, non una forbice che si separa come nella grande editoria ma una forbice che si avvicina. La mostra di Piacenza ha come obiettivo quello di diventare punto di collegamento e discussione una volta all’anno di questo tipo di problematica. Quando c’è stato il movimento ‘77, che è stato un momento esemplare come tipo di analisi, sono nati, nel giro di 4 mesi, e in 8 o 9 regioni diverse d’Italia, 68 nuovi giornali che avevano una tiratura media di circa 4000-5000 copie, con la caratteristica singolare di avere un tipo di comunicazione, di linguaggio, di progetto, incredibilmente simile senza che la grande maggioranza di coloro che facevano questi giornali si fossero mai conosciuti, salvo che nell’occasione di Bologna. Questi giornali hanno praticamente esaurito tutte le tirature che hanno fatto in quei quattro mesi. Solamente per quel che riguarda i giornali nuovi, senza contare quelli che esistevano da tempo, sono state acquistate 300.000 copie nelle 8 o 9 regioni dove esisteva la distribuzione. Nell’inverno ‘77-’78 sono nati ancora una serie di prodotti editoriali autogestiti (libri, giornali), che riproducevano in maniera stereotipata oramai separati dalle lotte reali, questo tipo di modello di comunicazione. Questi ultimi erano molto più colti dei precedenti perché usavano riferimenti culturali esterni a quelli ideologici a cui si era abituati dal ’68. C’era un forte uso di Majakovskj, Bataille, Sade, Artaud, di grandi modelli di rottura col concetto tradizionale di pensatore borghese. La fine del modello fu decretata dal rifiuto di continuare ad acquistare questo tipo di prodotto diventato stereotipato perché rischiava già di diventare organizzazione, partito”.
Parte almeno di questa produzione editoriale alternativa arriva nei punti tradizionali di vendita o no?
“Erano nate nel frattempo due o tre diffusioni alternative di cui una è la Nuova distribuzione editoriale (Nde) costituita dagli ex-lavoratori della Sansoni dopo l’episodio dell’acquisto Rizzoli, i quali contando su una media professionalità si sono posti come una distribuzione realmente organizzata anche sul piano tecnico, amministrativo e commerciale, aggregando piccoli editori privi di un meccanismo efficace di distribuzione. Questa è la Nde, una distribuzione efficiente che ha una sua centralizzazione meccanografico-amministrativa a Firenze, magazzini regionali in Lombardia, in Piemonte, nel Veneto, a Roma, Napoli, ha un buco nel sud come però hanno di fatto anche le grandi distribuzioni checché affermino nei loro volantini pubblicitari. È come prendere un modello borghese della grande distribuzione commerciale appropriandosi della capacità di struttura tecnica distributiva e ponendosi anche il problema della promozione. Questo è un modello che ha aggregato una trentina di piccoli editori e ha un potenziale di fatturato annuo intorno al miliardo e mezzo; non si limita quindi a distribuire questi materiali nelle sole librerie di sinistra, cioè militanti, alternative, marginali, ma cerca di forzare il mercato andando anche in librerie tradizionali. Questo fenomeno è simile, nonostante le strutture siano diverse, ai centri di distribuzione Punti rossi, i quali hanno invece la caratteristica che ogni magazzino è indipendente, frutto di una iniziativa regionale. Sono delle librerie che si uniscono in cooperativa e creano un magazzino intermedio che è anche centro di distribuzione. Questa distribuzione è separata dalla gestione delle librerie, ha una struttura regionale e distribuisce non solamente alle librerie che aderiscono alla cooperativa ma anche a tutte le altre”.
Come avviene l’interscambio?
“Ogni singolo centro regionale invia tutto quello che esce nella regione agli altri centri regionali e viceversa. In questo tipo di esperienza si è pensato che evitando la centralizzazione il compito della gestione amministrativa sarebbe risultato meno gravoso. Non a caso la Nde, per quanto ottima, è stata costretta, dopo un anno e mezzo di esistenza, ad acquistare un meccanografico per la fatturazione centralizzata a Firenze, il che vuol dire che ha dovuto fare un investimento molto elevato e gravoso. I Punti rossi sono riuniti in una cooperativa nazionale che ha sede a Perugia che ha come compito la pubblicazione e l’appoggio alla comunicazione antagonista; ogni singola situazione è però totalmente indipendente e autogestita in termini amministrativi. Sono due modelli diversi, in collaborazione e non in contraddizione, di essere presenti anche nelle altre librerie. Qui si arriva al nocciolo del problema. L’aspetto più rilevante che vale per tutti è che lo spazio in libreria lo si conquista attraverso la creazione non tanto di una distribuzione efficiente – che è la base organizzativa materiale nel senso che consegna le merci e le fatture – ma attraverso la promozione. La promozione è la capacità di pagare dei propri venditori, cioè dei promotori. Alcuni editori come Mondadori e Rizzoli hanno una distribuzione propria, altri, e parlo di quelli dell’area democratica, Einaudi, Feltrinelli, Savelli, Mazzotta, Laterza, Guaraldi, ecc., no. Vi sono editori come Feltrinelli e Einaudi che hanno promotori propri”.
E gli altri come fanno?
“Vi sono editori che non possono permettersi questo tipo di dipendente perché questo promotore costa mediamente tra i dieci e i dodici milioni l’anno per cui hanno due possibilità: o accettare una promozione che è interna alla distribuzione, o rivolgersi ad organismi creati dal mercato editoriale che sono delle ditte che affittano dei venditori alla case editrici. Entrambi questi modelli si sono rivelati assolutamente inefficaci. Efficacissimo si è dimostrato invece il modello di Einaudi e Feltrinelli i quali hanno un promotore che è l’espressione diretta della volontà di potere o di conquista dello spazio in libreria dell’editore stesso. Non solo, ma essendo anche editori dignitosi creano un lavoratore che, per la capacità dei suoi dirigenti, tende ad annullare lo spazio esistente tra la figura del lavoratore e quella del padrone cioè tende ad introiettare la figura culturale del padrone. L’altro promotore, quello ‘mercenario’, primo adopera quasi sempre quattro o cinque editori proprio perché il suo costo del lavoro non gli permette di avere un solo editore, secondo cambia spesso editore e quindi è separato dalla figura culturale dell’editore. Colui che ha apparentemente un maggior impegno economico perché ha più dipendenti in realtà ha un costo più basso di distribuzione e una resa più elevata in termini di vendita. Il promotore ‘mercenario’ avendo una figura speculativa per il suo datore di lavoro ha un territorio di visita molto vasto per cui si ritrova molto spesso a dover visitare 150-180 librerie; si determina allora automaticamente questo comportamento: lui visita le librerie che superano i 200 milioni una volta la settimana, quelle che superano i 100 milioni una volta ogni 15 giorni, quelle sotto i 100 milioni una volta al mese, quelle sotto i 50 una volta ogni due mesi determinando quindi progressivamente un meccanismo di emarginazione dell’informazione e dell’aggiornamento nella struttura libraria sul territorio. La strozzatura è nella promozione, non nella distribuzione”.
Quali sono le conseguenze di questa situazione?
“Sono l’emarginazione del piccolo editore a vantaggio di quello grande, la diminuzione progressiva del valore qualitativo del servizio librario sul territorio e di fatto quindi l’estensione della editoria volgare, di massa. Difatti trovi sicuramente nell’edicola di montagna l’Oscar Mondadori, ma non troverai un libro di Guaraldi. Il prodotto viene confezionato e imposto al mercato senza nessuna sollecitazione di produzione culturale; è uno sviluppo pressoché inevitabile a cui vanno incontro tutti gli editori che cominciano a superare i 14-15-20 miliardi di fatturato con conseguenze in termini di crescita culturale per il ‘popolo italiano’ sicuramente disastrose”.
Come ha affrontato il problema della promozione l’editoria diretta?
“L’area della comunicazione antagonista ha dovuto scoprire queste cose ripetendo in piccolo un errore: quello di creare prima la distribuzione poi la promozione. È teoricamente possibile – e la cosa è in discussione adesso – con il vantaggio molto forte che il tipo di lavoratore che tu produrrai con la tua cooperativa di promozione ha di fatto tutte le motivazioni che invece vengono fatte introiettare al dipendente Einaudi o Feltrinelli attraverso una raffinata tecnica. Sarebbe però più giusto – a mio avviso – fare il discorso inverso: creare cioè una promozione intermedia e poi appoggiare queste vendite effettuate nelle singole librerie a dei distributori qualsiasi. Quando il libraio non paga una tratta delle Messaggerie italiane queste gli chiudono il conto non del singolo autore a cui si è riferita la tratta ma tutte le forniture di tutti gli editori rappresentati in quella distribuzione per cui i librai hanno un rapporto di forza perdente con la distribuzione”.
Ecco, questo è un po’ il punto della situazione come è adesso, ma quali sono le prospettive per il futuro?
“Da circa un anno sono iniziate una serie di riflessioni abbastanza complesse per capire quali sono i meccanismi da regolare per produrre un livello più alto di professionalità, per impadronirsi e per decodificare le grosse capacità di gestione della industria editoriale borghese e soprattutto dei suoi meccanismi di distribuzione. Il nodo essenziale è parso quello della promozione. Vi sono stati anche dei tentativi di uscire dalla marginalità. Il caso esemplare è quello del Male. Il Male è una rivista che tendenzialmente poteva uscire col normale circuito delle librerie tirando 7-8000 copie. Una media professionalità e il rapporto con una struttura creata dal movimento, la tipografia 12 giugno di Lotta Continua, ha dimostrato che 40.000 copie del Male in roto off-set, sarebbero costate grosso modo come 7000-8000 copie in macchina piana. Il problema era quindi quello di appoggiarsi a un grande circuito di distribuzione automatica. Adesso il Male ha raggiunto le 65.000 copie perché ha centrato un momento specifico di esigenza del grottesco, scegliendo il grande canale di diffusione che è quello dell’edicola”.
Anche altre riviste militanti si sono posti questo problema?
“Vi sono in parallelo a questa esperienza del Male, una serie di tentativi di aggregare più testate per crearne alcune che abbiano la forza di uscire in edicola. In questo momento esistono nell’area del movimento 20 riviste che hanno una tiratura di 7-8-10.000 copie vendute ed esaurite, che hanno un prezzo di copertina tra le due e le tremila lire e che hanno quindi un potenziale di centinaia di migliaia di lettori. Per la complessità del dibattito interno all’organizzazione politica culturale del movimento, e quindi alla sua espressione scritta che è l’editoria diretta, queste riviste non riescono a trovare forme di accordo per cui rimangono sicuramente molto più vive separate. Il livello di dibattito in questo momento è quindi cercare di capire quali sono le formule successive di aggregazione del rapporto distribuzione-promozione, della conquista quindi di spazio nelle librerie, puntando a coprire zone emarginate dalla grande distribuzione come tutta la fascia adriatica o parte del meridione o la Sardegna, essendo però presenti anche nelle grandi città, evitando di costruire marchingegni complessi e poco funzionali come è stato l’episodio Area fallita proprio perché si proponeva di avere un rapporto di forza con la grande distribuzione”.