di Antonio Caronia (Linus dicembre 1980)
È stato un convegno piccolo e non molto frequentato, quello che si è tenuto a Ferrara il 24, 25 e 26 ottobre di quest’anno. Non frequentato, soprattutto, dai grossi nomi, quelli “che contano”, a riprova del fatto che una sensibilità effettiva per la fantascienza nella cultura e nel costume contemporaneo è, in Italia, ancora tutta da costruire. Eppure questo convegno ha dimostrato che le premesse per un lavoro critico sulla fantascienza, in Italia, esistono, che esiste quanto meno una messa a punto preliminare sugli strumenti per condurla. Il merito, contingente ma non per questo rimarchevole, è stato questa volta della cooperativa culturale Charlie Chaplin di Ferrara, che ha avuto il coraggio di organizzare un convegno di studio, una rassegna di film, una mostra di grafica, che hanno tentato di radunare le tendenze più interessanti della critica e della pratica fantascientifica italiana di questi ultimi anni. Non è certo colpa dei compagni della Charlie Chaplin se all’appello hanno risposto quasi esclusivamente i collettivi fantascientifici che hanno attraversato l’era del post-politico (Un’Ambigua Utopia di Milano, Un’Ambigua Utopia-Crash di Genova, Pianeta Rosso di Napoli) e gli esponenti più sensibili della critica universitaria (Carlo Pagetti, Vita Fortunati), tra i quali ha finito per accentrarsi gran parte della discussione. Intendiamoci, non che il mondo accademico italiano sia, in quanto tale, refrattario alla fantascienza: a smentita di eventuali dubbi in proposito, esce proprio in questa settimana il volume La fantascienza e la critica (Feltrinelli) che raccoglie una serie di testi dell’omonimo convegno di Palermo del 1978. Convegno importante, che ha visto riuniti studiosi di molti paesi, ha fatto conoscere meglio in Italia Darko Suvin e il gruppo di Science Fiction Studies, probabilmente la migliore rivista mondiale di critica della fantascienza, convegno a cui Luigi Russo, docente di Estetica all’università di Palermo, ha dedicato cure e sforzi tenaci. Tuttavia proprio l’introduzione di Luigi Russo a questo volume fa sorgere più di un dubbio sulla capacità (o la volontà) dei critici universitari di formazione letteraria ad aprirsi ad una considerazione del “fenomeno” fantascienza che esuli dal suo studio come genere letterario. E se facciamo questo discorso in questa sede non è perché siamo presi da smanie arrivistiche, come alcuni pensano, e vogliamo dialogare ad ogni costo con i professori universitari (i quali, dal canto loro, e ben a ragione, supponiamo non dialogano affatto con noi, tagliando così la testa al toro): ma perché pensiamo, forse ingenuamente, di avere qualcosa da imparare dalla critica universitaria, se questa si misura con la fantascienza con pochi pregiudizi e sulla base della conoscenza dei testi; e pensiamo che da essa abbiano qualcosa da imparare tutti quelli che della fantascienza si interessano, magari da appassionati, ma con gli occhi aperti anche su qualche altro ordine di fenomeni. Però pensiamo anche che qualcosa da imparare ce l’abbiano forse anche gli universitari da altre esperienze, per quanto limitate e non sempre del tutto consapevoli di sé stesse: quelle esperienze appunto che hanno tentato di leggere la fantascienza dentro i fenomeni, i comportamenti sociali e politici di questi ultimi anni. Riprendiamo fiato, chiediamo perdono del tono un po’ solenne adoperato fin qui (chi va al mulino si infarina, e a furia di parlare di intellettuali e di critici accademici…) e parliamo di quello che ci è sembrato il più interessante fra gli interventi del convegno di Ferrara: quello di Carlo Pagetti, che è fra i pochi professori universitari ad aver capito, pare, la necessità di uscire dal discorso puramente letterario per avventurarsi sul terreno della fantascienza come fenomeno sociale. Riassumendo il suo intervento e integrandolo, anche, con il dibattito che è seguito, Pagetti ha delineato due aspetti della fantascienza. Da un lato la sua evoluzione come fenomeno letterario, di scrittura, che ha portato le tendenze più recenti, sull’esempio di Vonnegut, Ballard e Dick, ad una riflessione sul linguaggio e le convenzioni del genere “fantascienza”, ad una dissoluzione del concetto di “realtà” e ad una dichiarazione aperta del proprio carattere di simulazioni (con tutto quello che questo comporta come possibilità di riflettere, per il lettore, di non farsi schiacciare da una macchina narrativa conclusa che presenta se stessa con tutte le caratteristiche di “riflesso fedele” della realtà: non a caso Pagetti ha utilizzato qui la chiave di lettura di Suvin, del “novum” cognitivo, che si può trovare nel saggio iniziale del volume su Palermo). Dall’altro l’irrompere di un polo fantastico di un “codice” fantastico – contrapposto al codice realistico – in tutti i settori della cultura di massa, dal fumetto al cinema alla pubblicità. Pagetti ha mostrato come alcune caratteristiche della fantascienza scritta si conservino, in questa invasione del fantastico nella cultura di massa: il porsi esplicitamente come finzione, l’autocitazione ironica e così via; ma ha anche sottolineato fenomeni diversi, come l’appiattimento del linguaggio, la sua semplificazione fino alla scomparsa (citando opportunamente alcuni personaggi dei comics Marvel, come Hulk e Black Arrow), la riproposizione di codici realistici dentro al fantastico (come le forze del bene in The Lord of the Rings di Bakshi). Ci si è trovati d’accordo che l’invasione del fantastico non è un fenomeno da esorcizzare, perché è collegato con una mutazione della percezione di massa della realtà e con un diverso ruolo delle macchine in rapporto a noi. Si è avanzata l’ipotesi che si possa in qualche modo, giocare il fantastico contro il fantastico, prendendo sul serio ciò che ci viene presentato come finzione e giocando con ciò che ci si dice di prendere sul serio. Ma non sono state, ovviamente, conclusioni, perché di conclusioni, in questi tempi, ce n’è poche in giro. Spunti per una discussione, questo sì: forse anche per una pratica, che si allarghi dalle poche esperienze finora fatte dai collettivi esistenti e coinvolga sempre più gente. Ma forse, tutto questo, sta già succedendo, e la prossima volta non un convegno si tratterà di fare, ma una festa.