Il secondo contributo in direzione de “La fine dell’uomo” è un long-form di Antonio Caronia, pubblicato in forma di prefazione a: Cristian Fuschetto, Darwin teorico del postumano. Natura, artificio, biopolitica, Mimesis, Milano 2010.
Fra i tanti problemi che nel Novecento sono maturati, sono stati dibattuti, ci sono stati tramandati in eredità, quello della “natura e del posto nel mondo” dell’uomo (come recita il sottotitolo dell’opera di Arnold Gehlen dedicata all’argomento1) è certo uno dei più rilevanti, ma al tempo stesso, ormai, uno di quelli che più hanno mostrato i limiti e le impasse dei paradigmi essenzialisti. Meno di trent’anni dopo la prima apparizione di quel libro, Michel Foucault poteva scrivere:
Una cosa comunque è certa: l’uomo non è il problema più vecchio o più costante postosi al sapere umano. Prendendo una cronologia relativamente breve e una circoscrizione geografica ristretta – la cultura europea dal XVI secolo in poi – possiamo essere certi che l’uomo vi costituisce un’invenzione recente. Non è intorno ad esso e ai suoi segreti che, a lungo, oscuramente, il sapere ha vagato. Di fatto, fra tutte le mutazioni che alterarono il sapere delle cose (…) un[a] sol[a], quell[a] che prese inizio un secolo e mezzo fa e che forse sta chiudendosi, lasciò apparire la figura dell’uomo. (…) L’uomo è un’invenzione di cui l’archeologia del nostro pensiero mostra agevolmente la data recente. E forse la fine prossima. Se tali disposizioni dovessero sparire come sono apparse, se, a seguito di qualche evento di cui possiamo tutt’al più presentire la possibilità ma di cui non conosciamo per ora né la forma né la promessa, precipitassero, come al volgersi del XVIII secolo accadde per il suolo del pensiero classico, possiamo senz’altro scommettere che l’uomo sarebbe cancellato, come sull’orlo del mare un volto di sabbia.2
La citazione non serve, naturalmente, solo per osservare come già nel 1966 Foucault ponesse quella che, quasi trent’anni dopo, si sarebbe chiamata la questione del postumano. Vuole stabilire anche, sin dall’inizio e nel modo più chiaro possibile, un approccio “genealogico” e non essenzialista al problema dell’umano. L’impostazione gehleniana ha avuto una certa fortuna – in Italia, per esempio, più che altro nella volgarizzazione che ne ha dato Umberto Galimberti3. Sposata al catastrofismo antitecnologico di Galimberti, la visione dell’uomo come “animale incompleto” è sembrata a molti la quadratura del cerchio.
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