La “sfida allo sguardo” del corpo virtuale

Uno degli aspetti più rilevanti della ricerca di Caronia riguarda le nuove tecnologie che non possono essere lette con le categorie del moderno relative alla tecnica e quindi essere inserite nell’ambito delle protesi, che determinano il potenziamento e l’estensione dell’organismo umano nel passaggio da quelle meccaniche a quelli sensoriali e della cognizione, e nei modi di vita che esse configurano e nel loro creare un ambiente autonomo, che si sostituisce alla natura. Mentre tutto ciò continua ad essere e permanere, le tecnologie digitali non sono leggibili in tale ottica in quanto, come dice Caronia,[1] non si limitano a <<riportare l’esterno nell’interno>>, ma realizzano anche <<un movimento inverso, rovesciando l’interno sull’esterno in modo radicale e catastrofico>> e rendono fluidi e instabili i confini tra corpo e ambiente.

L’esteriorizzazione dei processi intellettuali e cognitivi ha conseguenze non più solo epistemologiche ma anche ontologiche, cambia non solo il modo di pensare o agire ma il modo d’essere sia dell’uomo che del mondo. Non abbiamo più a che fare con un mondo stabile. Ma con <<mondi che non vivono più solo nell’immaginazione del soggetto elaboratore di immaginari. E che tendono ad esteriorizzarsi, a vivere di vita autonoma. Mondi che, anche se virtuali, non per questo non sono reali. E tali sono anche i “mondi possibili,” delle marche e delle merci, quelli creati dalla pubblicità e dai nuovi media, che si incarnano nelle immagini e nei prodotti e che ci guardano dagli schermi dei computer, della televisione, del cinema, dalle immagini fotografiche che sono dappertutto e di cui è possibile fare esperienza sia nello spazio fisico che in quello virtuale e che diventano ciò di cui è fatta la stessa metropoli.

Le tecnologie digitali aprono <<quella che può definirsi un’“era del possibile” nel senso di una ridefinizione dello stesso principio di realtà>>. Ciò perché con il digitale la simulazione parla direttamente ai sensi umani e può anche ”farsi mondo in senso proprio”. Il virtuale apre l’era della pluralità dei mondi, una pluralità ben più radicale e sconvolgente di quella intravista da Giordano Bruno e confermata dalla cosmologia del XIX secolo. La cosmologia della fine del XX ha già cominciato a parlarci di universi paralleli, di ponti di Einstein Rosen, di fughe delle particelle elementari in universi adiacenti. Le biforcazioni dei giardini di Borges diventano tri-, quadri-, pentaforcazioni, proliferano nei meandri delle immagini frattali.

La realtà virtuale del resto è contemporaneamente reale e virtuale. Già Lacan aveva rilevato che il confine tra realtà e immaginario si è fatto labile così come è sempre più difficile tenere separati il sensibile e l’immaginario. A sua volta il possibile si espande e diventa fattibile. E il reale si gioca sul piano dell’immaginario. L’immagine esce dallo schermo: diventa esperienza e concetto. L’immaginario, infatti, è parte integrante del sistema produttivo e nell’attuale economia diventa valore economico. Mentre le pratiche artistiche ne evidenziano il carattere sovversivo nella capacità di incarnare un negativo, un altrove, un altro rispetto ai mercati e ai rapporti sociali alienati.

Configura già per McLuhan il passaggio dal primato della visione alla polisensorialità tattile e a immagini multisensoriali. E con le nuove tecnologie prendono avvio nuove modalità di organizzare e elaborare il pensiero e la comunicazione e un linguaggio simbolico non verbale. Il virtuale è la realtà creata dal collegamento in rete dai computer, dall’aumento della loro potenza di calcolo, dal collegamento uomo-macchina, macchina-macchina, uomo-uomo.

Il virtuale è in grado di produrre i suoi effetti prima di diventare reale. E’ un insieme di pratiche. E’ visionaria anticipazione dei modi in cui cambia la nostra esperienza del mondo. E’ una diversa esperienza che spezza il linguaggio per raggiungere la vita: è suono senza parole, discorso senza ordine. Apre per Caronia agli scenari visionari immaginati da Antonin Artaud che ritornano e si ripresentano nella visione delle reti telematiche, nel corpo virtuale che ha infinite potenzialità di farsi carne o “nuova carne” come avviene nei film di Cronenberg. C’è, infatti, nella battaglia, nella vita e nelle opere di Artaud, il superamento della separazione tra arte e vita. Così le sue visioni sono <<un viatico se vogliamo pensare e praticare un livello di espressione che lavori dentro i processi di produzione del senso, individuale e sociale, se vogliamo vivere gli squilibri indotti dalle tecnologie contemporanee come occasione per liberare i corpi e non di asservimento. Allora il corpo di Artaud che danza all’inverso, che scuote le deboli certezze delle parole e si fa travolgere dall’ombra, può essere più vicino di quanto non si creda al corpo ibridato dalle tecnologie, al corpo come campo di possibilità e non come destino biologico>>.

Le nuove tecnologie trasformano i corpi in terminali collegati ovunque siano. <<La comunicazione si incorpora, aderisce i corpi, li trasforma e si trasforma perché il corpo dà al mezzo di comunicazione la possibilità di dislocarsi e di fluttuare>>. Espone il corpo al contatto con gli altri e ne mette in discussione i confini. I nuovi mezzi di comunicazione e le nuove tecnologie “pensano” la comunicazione stessa: <<la programmano, la orientano, producono valori, simulano funzioni corporee e potenziano quelle organiche>>. Inoltre la potenza del virtuale apre alla potenza del collettivo.

Per tutto ciò è alle dinamiche di costituzione del soggetto che Caronia ha rivolto la sua attenzione in diversi testi e studi, un soggetto desoggettivizato, una presenza sempre sottesa già dalle sue teorizzazioni del cyborg, l’organismo cibernetico, l’ibrido biologico macchinico che è una delle figure chiave della contemporaneità, teorizzata negli anni Ottanta e diffusa dal cinema e dalla fantascienza negli anni Novanta. Richiama antiche mitologie e le figure, frutto di ibridazioni, tra l’animale o il vegetale e l’uomo. L’ibrido ci ricorda Caronia viene da una ubris, un eccesso, una sfida, un inganno, che infrange l’ordine del cosmo e delle cose come sono il centauro o la chimera. Oggi i cyborg non sono più uno sfida, ma appartengono alla nostra quotidianità, camminano nelle strade delle nostre città, tutt’al più incarnano una trasgressione del tutto integrata con i meccanismi della realtà. Anche l’uscita da se stesso del cyborg, l’estasi, è diventata una condizione quotidiana, permanente anche se reversibile, è il poter attraversare la frontiera tra esterno ed interno, così come le reti evocano l’immagine dell’intelligenza collettiva.

E per questo il cyborg è una figura che vorrei definire un corpo desoggettivizzato perché è la figura del cyborg, che mostra come <<sono le strutture, il sistema stesso del linguaggio – e non il soggetto – che parlano>>, per cui si rende inevitabile l’incontro con il corpo, che è esteriorità visibile ed esemplare su cui non solo il potere si istoria, con le sue pratiche e le sue discipline, ma è esso stesso un corpo inteso come la superficie di iscrizione delle tecnologie e un luogo attraversato dal desiderio.

Nell’aggiornamento che Caronia ha fatto del testo sul cyborg del 1985 nel 2001 in relazione con il postmoderno sono infatti protagoniste le tecnologie del linguaggio. Il linguaggio non media solo il nostro rapporto con il mondo e con gli altri, è costitutivo del nostro stesso Io, della coscienza e della corporeità. Se per Merleau-Ponty è il corpo che parla, per Caronia sono i saperi, le tecnologie e le configurazioni linguistiche che lo parlano. Rifacendosi a Dick, Cronenberg, Ballard ma anche a Lacan e allo strutturalismo, a Nietzsche e a Foucault, Caronia con la figura del cyborg presenta il corpo come un luogo in cui si iscrive l’immaginazione che è un dispositivo non solo riproduttivo, ma produttivo, che ricombina, integra, progetta, configura, e un dispositivo interattivo che incide sull’ambiente. L’immaginario penetra e si iscrive nel nostro sistema nervoso come diceva Ballard.

E tuttavia la natura e la realtà di un corpo sempre più ibridato da protesi di ogni tipo (meccaniche, elettroniche, computazionali), che incorpora e indossa sensori che mutano i suoi stessi sensi, non lo fanno cessare di essere il Leib, il corpo fenomenico, vissuto in prima persona, l’originaria apertura al mondo, il punto zero, il qui assoluto a partire dal quale si danno le altre dimensioni della soggettività e del mondo, ma ciò avviene nel suo non essere un corpo dato ma un corpo ibridato dalle tecnologie e in mutazione. E ciò configura un suo ampliamento e l’estensione dei nuovi sensi. Ciò cambia lo statuto delle immagini e configura diversamente la relazione tra sguardo, gesto e parola. Il mondo stesso è ora creato dalle nuove protesi.

L’era immateriale aperta dalle nuove tecnologie infatti non significa né implica la fine del corpo, ma un suo mutamento. E’ su questo terreno che si iscrive il corpo mutante e disseminato del cyborg e lo rende una figura che è l’espressione della realtà del nostro tempo, e del fatto che mai come oggi si è parlato tanto della corporeità. Ė il corpo visto come macchina al lavoro che tende al simbolico mondo delle protesi e agli strumenti che dilatano le capacità motorie e manuali e quelle intellettuali. Il nostro corpo è sempre più un corpo tecnologico per cui si ridefinisce la percezione umana, che non si può scindere in compartimenti stagni, e ciò investe il corpo nella sua totalità, mentre scompaiono i confini tra corpo e tecnologia, tra mente e macchina.

Niente infatti è più misterioso del corpo, neppure la mente o solo la mente lo è altrettanto. Il corpo è l’enigma a cui ciascuno di noi e ogni società cerca di dare la propria risposta: è l’enigma dell’essere, della materia e della “carne” delle cose e del mondo e dei linguaggi da cui viene il senso. Corpo siamo noi, sono i nostri vissuti, le nostre storie, il nostri immaginari. Corpo è il mondo, è le cose, è le immagini. Il corpo è il “punto zero di orientamento”, da cui procedono i luoghi dello spazio, la matrice di ogni altro spazio esistente. Tramite il corpo mi riconosco “uomo chiuso in un sacco” e l’universo delle cose si richiude su di me, preso nel giro delle cose carnali.

L’irruzione del corpo, del corpo-carne, vivente e libidinale, del corpo “selvaggio”, aformale più che informale, senz’organi, come diceva Artaud, è al centro della ricerca che attraversa tutto il Novecento e ritorna ora in modi nuovi: come un corpo “energheia”, magmatico e in tensione che esercita un fascino enigmatico che spiazza le attese di forme composte e addomesticate.

Ciò che ci ammalia e ci impedisce di distogliere lo sguardo è la visione della furia e della passione del corpo selvaggio che ci riporta a una sorta di punto zero, di inizio caotico, di energia pura, sensuosa, senza limiti, di pulsione e volontà d’essere, cieca ad ogni altra istanza, in cui tutto ciò che credevamo di sapere del corpo e del mondo entra in scacco e si rende visibile anche ciò che abbiamo sempre saputo ma non volevamo sapere.

Ė questo il corpo che attraversa l’arte del Novecento che capta il corpo tattile e si fa luogo dell’immaginario del vedere: inaugura il didentro e il di fuori e il loro scambio nell’aformalismo, nell’espressionismo, nelle rammemorazioni, nelle colate materiche di Pollock e nei corpi disfatti e nelle tonalità spettrali di Kirchner, nei brandelli di carne e ossa di Raul Gabriel per dire la nostra attuale condizione e esperienza di vita e del mondo.

E se da sempre addomestichiamo e “indossiamo” il nostro corpo, costruendo su di esso un altro corpo, facendone la conferma ai processi sociali e rendendolo insieme e contemporaneamente individuale, più proprio a chi lo “indossa”, e se fin dalle origini, per quanto possiamo parzialmente ricostruire, il corpo è stato ampliato da protesi e apparati “artificiali” che ne modificano le possibilità di interazione e di presa e di costruzione di se stesso e del mondo, il corpo protesico e macchinino messo in atto dalle nuove tecnologie, muta la stessa “materia prima” biologica dell’uomo. Le nuove tecnologie contribuiscono a disseminare a dismisura, con l’interposizione di interfacce tra l’io e i suoi organi periferici, il corpo invisibile e più esteso dei sensi. La realtà virtuale lo dissemina nelle reti e negli spazi virtuali. Per questo non è facile dire dove termini il corpo, che già i nostri sensi estendono oltre la pelle, che ha occhi come dice la Ackerman, e che è la linea di confine, o “la prima interfaccia”, il luogo degli scambi e del contatto.

La realtà virtuale si può vedere, toccare, sentire, ci conduce in un ambiente tattile, aggiungendo la mano alla mente. Il casco e la manopola agiscono come una sorta di pelle artificiale e riescono anche a costituire un efficace meccanismo per interagire nello spazio virtuale. Possiamo realizzare i nostri sogni, viverli da dentro, toccarli. E già è diventato realtà l’antico sogno del doppio. Il mondo stesso è ora un’illusione del mondo creato dalle nostre protesi.

Insieme si dà un ampliamento ed un’estensione dei nostri sensi, come se avessimo il “cervello fuori dal cranio”, e i “nervi fuori della pelle”, come dice Caronia, con effetti tali da richiedere un oltrepassamento del linguaggio o un nuovo ambiente perché <<quando si è in grado di creare ogni tipo di realtà non c’è più bisogno di descrivere il mondo>> (Lanier). “In Ballard – scrive Caronia in Archeologie del virtuale – <<l’interno e l’esterno, il corpo e il mondo diventano l’uno in funzione dell’altro, anzi si compenetrano, diventano un luogo neutro e indistinto in cui si va registrando, con una scrittura crudele e impietosa, la fine della modernità>>.

Ciò rimette in causa il luogo di formazione delle immagini mentali e determina una crisi senza precedenti della rappresentazione. L’emersione della realtà virtuale, aprendo a nuove possibilità di ricerca e di progettazione, ci ha reso consapevoli che la visione del nostro corpo non è data una volta per sempre: il corpo è storia, e la sua storia è quella della sua progressiva artificializzazione, fino all’ibridazione. E l’ibrido definisce una nuova morfologia, qualcosa che non ha ancora identità e non ripete forme o realtà già esistenti. Rompe gli schemi e non rientra nelle tassonomie.

L’uomo non è più confinato nella sua pelle. <<La percezione cibernetica implica tecnologie transpersonali, quelle della comunicazione, della condivisione, dello scambio, della collaborazione>>. Tecnologie che ci rendono capaci di <<trasformare il nostro essere, di trasferire i nostri pensieri e di trascendere i limiti del nostro corpo>>, come scrive De Kerckhove.

Il corpo virtuale implica una nozione di identità che si costruisce e si modifica in connessione con altri nei processi comunicativi virtuali. Il “corpo flusso” del cyborg è un corpo senza confini, senza identità fisse, che si confonde con l’esterno, un corpo che si modifica all’infinito. Il trattamento digitale delle immagini (morphing) ci avvia a corpi fluidi e malleabili. Negli immaginari indotti dalle nuove tecnologie si delineano i nuovi territori, in cui le ibridazioni degli uomini con le macchine prospettano nuovi vissuti estetici e nuove modalità di conoscenza e di fruizione. Attraverso l’innovazione tecnologica (ingegneria genetica, biotecnologie, robotica), il corpo funge da soggetto tecnico e diviene oggetto da riprogettare: è un corpo-oggetto-macchina, sempre più determinato dalle protesi motorie, sensorio-percettive e intellettive. O, come lo pensa Sterlac, è un “corpo cavo”, aperto ai nuovi organi artificiali. L’accettazione di una logica di metamorfosi e di flusso implica non solo che sia l’uomo a modificare il suo corpo, ma che il corpo stesso possa scegliere la metamorfosi continua.

Il corpo virtuale non ha né carne né sangue ma è il tramite tra i corpi di carne e di sangue. Inoltre il corpo virtuale riannoda i fili del perduto “corpo dionisiaco”, evocato dalle Avanguardie di primo Novecento, e il contemporaneo “corpo glorioso”, che proietta su di sé i segni d’arte: un corpo aperto che si offre al mondo sia con la liberazione totale del corpo sia con il suo ingresso in un involucro e perfino con la sua metafisica distruzione a vantaggio del macchinino e della marionetta, che non sono il meccanico o il macchinale, ma caso mai macchine desideranti e macchine celibi, per significare un corpo nuovo.

Il corpo, infatti, non è solo il “luogo” privilegiato delle strategie repressive o di quelle omologanti prevalenti oggi, che normalizzano il desiderio e lo riconducono alle istanze della Legge o della norma. E’ anche il luogo in cui far valere i piaceri e i saperi nella loro molteplicità, in un movimento aperto di differenziazioni e di metamorfosi. Racchiude istoriata nella sua carne, la potenza della vita e del desiderio. E’ questo che ha richiamato l’attenzione di Caronia per il cyber manifesto di Donna Haraway, per la quale il cyborg è sfida alla divisione del lavoro, al dualismo dei sessi, all’etnocentrismo. E soprattutto ha motivato il riferimento a Deleuze, che parte dal corpo e permanendo in esso pone il rapporto con la molteplicità e la diversità, indagando già a partire dalla Logica del senso, attraverso Nietzsche, il rapporto tra singolarità preindividuali e individuazione corporea. Perché per Deleuze il corpo è superficie scivolosa, opaca, tesa, flusso amorfo e indifferenziato. E dato che non c’è fondamento, è senza fondo. E quindi pensa il corpo al singolare, senza organi, come dice Artaud, spogliato di ogni dimensione organica, che diviene il “luogo di trasmigrazione”, di registrazione di affetti, di visibilità, udibilità, dicibilità, individuazione, il luogo da cui affiorano i continenti e tutti i nomi. Percetti e affetti sono autonomi e autosufficienti, sono il divenire non umano dell’uomo.

Così ora che siamo di fronte a un mutamento epistemico radicale che rivaluta la conoscenza sensoriale per una nuova qualità della vita, il corpo si fa racconto attraverso la propria esperienza fisica e si apre un diverso approccio ai modi e ai campi del sensibile, che rende possibile andare a interrogare le reti, i grappoli, i fasci sensoriali, la polisensorialità della significazione.

La mutazione e l’ampliamento delle sensorialità e del mondo esperienziale, che è stato il grande tema dell’immaginario cyborg e del posthuman, porta oggi alla ricerca di sensazioni nuove, apre a nuove frontiere della sensibilità e a nuovi linguaggi. Il corpo è infatti anche corpo sovversivo, dotato di una propria intenzionalità, luogo del desiderio, dove si fa visibile di quale società il corpo ha bisogno, e quale desidera e sogna: e lo fa anche producendo sintomi ribelli e “caotici” che aprono continue brecce nei conflitti tra mente e corpo, natura e cultura, corpo individuale e sociale.

Merito di Caronia con la sua analisi del cyborg è anche l’aver assunto lo scacco analitico che si manifesta nell’eccedenza di discorsi e saperi che investono il corpo. Per questo i testi di Caronia terminano sempre con delle domande che aprono a nuovi percorsi, che sono quelli del mutamento di paradigma aperto dalle nuove tecnologie che connettono non solo persone, ma cose, prodotti e tutti gli oggetti generati dai dati, e dalle nuove forme di vita degli oggetti tecnici e da quella che è stata chiamata la terza rivoluzione digitale dei nuovi artigiani digitali, dei marker e dei fablab.

Si aprono allora altri e più complessi scenari del corpo tecnologico sempre più integrato e che viene a fare tutt’uno con il corpo di carne, quelli di una trasformazione delle protesi come riprogettazione del corpo che vanno oltre il funzionamento, che costruiscono una seconda natura per il corpo stesso, una diversa normalità costruita artificialmente, che va al di là delle protesi riparative o che potenziano, come si è reso evidente con l’ammissione di Pistorius alle olimpiadi del 2008 o con Aimèe Mullins l’atleta paraolimpica, attrice e modella, priva delle gambe sotto il ginocchio che ha sfilato a Londra per McQeen su protesi di legno intagliate a mano, che rendono unico il suo modo di incedere.

La fascinazione del doppio – Non è quindi più necessario evocare il cyborg, esso si è fatto realtà quotidiana trasformandosi e lasciandosi alle spalle i pur affascinanti immaginari macchinici e ha ridefinito il suo rapporto con la tecnologia. Sono le tecnologie e i sistemi dell’informazione che oggi rivestono i corpi e i loro ambienti.

Tutto questo potrebbe anche suggerire che i modelli odierni che fanno riferimento alle logiche del virtuale, come il cyberpunk, il culto della rimodellazione estetica, l’attrazione per le tecniche di clonazione aprono a nuove forme di miti incarnati sia pure commerciali in cui ritornano, oltre al mito della giovinezza, l’eternizzazione e soprattutto il mito del doppio, che ha accompagnato l’umanità lungo tutta la sua storia e la sua mitologia. A partire da Narciso, che incontra la sua immagine, agli automa inquietanti abitatori delle Wunderkammer nel Seicento-Settecento, ai robot, parola inventata da Capek negli anni Venti, all’estroflessione del doppio, all’androide che si autonomizza dall’uomo e chiama in causa la morte, la ricerca di ritornare all’inorganico, alla creazione di doppi virtuali nelle tecnologie RV immersive. E’ al doppio che fa riferimento anche Caronia per il corpo artificiale e il suo essere sfida allo sguardo, perché tale è ogni doppio, come lo è l’onnipresente dicotomia tra luce e ombra, opacità e trasparenza, occhio umano e occhio artificiale, come accade in Blade Runner. E lo è perché in esso opera una divaricazione paradossale e mostruosa tra l’apparenza e l’essenza.

L’androide odierno allo stesso tempo cibernetico e organico trasforma il cyborg che non ha più bisogno di essere invaso dalla tecnologia.  E’ il corpo umano che vive una struttura tecnologica ad esserne invaso. Il cyborg, annota Caronia <<non ha bisogno di impiantare fisicamente la tecnologia all’interno del proprio corpo. Quest’ultima, diffusa nel suo ambiente, agisce su di lui direttamente a livello mentale, si inscrive nel suo sistema nervoso, con uno scambio fra l’interno e l’esterno che riattiva il processo simbolico a livello di tutto il corpo>>.

E ciò ci porta per sfuggire all’immaterialità anche a ritorni alla fascinazione della macchina industriale e ai suoi strumenti, in una sorta di ritorno all’inorganico e alla pulsione di morte. Ma soprattutto configura il corpo disseminato ad opera delle nuove tecnologie, che si estende con la telepresenza e il web. Nell’ombra permangono gli immaginari della frammentazione e dello smembramento del ritorno all’inorganico che la pulsione di morte veicola.

 

Vivere nel cyberspace

L’intelligenza collettiva – Gli scenari che si sono aperti e sono presenti con il passaggio sulle piattaforme come luoghi di incontro, di scambio, di commercio sono il nuovo ambiente della nostra vita e di quello che si configura come un mutamento antropologico dello stesso soggetto umano negli scenari dell’intelligenza collettiva.

L’iperliberismo e il consumismo, che hanno caratterizzato oltre ai decenni di fine secolo l’inizio del terzo millennio, stanno infatti tramontando e hanno lasciato il posto a un nuovo modo di pensare insieme. La rete decentra la produzione di idee e ne concentra la gestione sulle piattaforme. Tutto ciò rende anche possibile aprire lo scenario dell’intelligenza collettiva che emerge dalla connessione in rete delle persone e tra persone e il mondo sociale. Così che la rete e il mondo diventano indistinguibili, quale ulteriore sviluppo dei modi in cui le mappe e le rappresentazioni non solo sono diventate tutt’uno con i territori, ma li hanno sostituiti.

Ne avevano visionariamente preannunciato l’avvio le teorizzazioni di Pierre Lévy sull’intelligenza collettiva,[2] quelle del web 2.0, la nascita di Google, di Wikipedia. Con il Web si passa da spazi visibilmente e concettualmente unitari a strutture articolate, caratterizzate dalle aggregazioni di più soggetti differenti.  In esso la fruizione dell’informazione diventa più libera, casuale, aperta, non controllabile aprioristicamente. Per questo apre alla cooperazione comunicativa.

La rete è infatti contemporaneamente un acceleratore delle dinamiche capitalistiche e un luogo delle comunità che si autorganizzano. E’ un medium alternativo ai media della comunicazione di massa. Configura un ecosistema dell’informazione e dell’innovazione. E’ anche uno strumento di un nuovo modo di pensare insieme ed è per Lévy ”un nuovo spazio antropologico”, uno spazio del sapere e dell’intelligenza collettiva, reso tale dalla velocità di evoluzione dei saperi, dalla quantità di persone chiamata a imparare e a produrre nuove conoscenze e dai nuovi strumenti, quelli del cyberspazio in grado di far apparire <<paesaggi inediti, identità specifiche, peculiari a questo spazio, nuove figure storico-sociali.[3] E’ dunque pensabile come il sistema nervoso delle persone connesse.

Le persone connesse in rete vivono in simbiosi con programmi robot. E’ l’io stesso che muta nell’era del corpo moltiplicato: non è più infatti, come ha sostenuto Antonio Caronia, il centro dell’identità, ma si trasforma in un “centro operativo provvisorio” da cui partiamo per le nostre incursioni nelle reti. E’ un io dall’identità variabile.

Dalla connessione, che gli abitanti delle reti istituiscono, si istituiscono le comunità, che delineano appartenenze volatili, transitorie, fatte di esperienze e di un sentire comune che creano vincoli che non annullano ma lasciano sussistere le singole individualità. Nascono scritture che contaminano alfabeti e simboli creando un’immaginaria lingua delle lingue, arcaica e futuristica, una “surlangue” direbbe Pierre Lévy, una lingua che deve ancora venire, che il virtuale e i suoi mondi già preannunciano e balbettano.

Per questo in Internet oggi sono gli usi dei suoi utenti che fanno del ciberspazio lo spazio condiviso più diffuso e accessibile che ci sia al mondo (Caronia)[4] e che ne configurano i diversi esiti. C’è quello che parla nel linguaggio del mercato globale dato che anche il marketing e finanza vi operano e traggono dai dati delle piattaforme la loro conoscenza dei comportamenti umani. Internet, infatti, è un’area per fare shopping, ma è anche uno spazio per giocare con altri utenti, per ascoltare musica e stazioni radio da tutto il mondo, per partecipare a dibattiti e newsgroup, per fare sesso, e per di tutto ciò che appartiene alla vita quotidiana sullo schermo, e anche per organizzare manifestazioni. Tutto ciò trasforma Internet in una società digitale parallela a quella fisica in senso sia culturale che in quello economico e in quello sociale. Una società digitale che entra in competizione e interagisce con la società fisica in cui siamo stati confinati così a lungo.[5]

L’autonomia evolutiva delle piattaforme, esistendo nello spazio intersoggettivo, crea inoltre una nuova dimensione del Sé. Come avviene con le protesi del corpo che lo modificano, i computer a loro volta interagiscono la mente, per cui il rischio è quello di assimilare il mondo di pensare delle piattaforme mentre occorrerebbe ideare le piattaforme adeguate al nostro modo di pensare.   E dunque: stiamo evolvendo in superorganismi o ci stiamo frammentando in un sistema di individui che intrattengono relazioni più complicate?

Occorre allora anzitutto chiedersi se è questo o qual è il mondo in cui vorremmo vivere o se è così che vogliamo risolvere i problemi dell’umanità nella consapevolezza anche che l’intelligenza artificiale è solo agli inizi e che Asimov, il robot della Honda che canta e balla per quanto ci incanti, ha l’intelligenza di una cimice, come dice De Biase. Inoltre i computer ridisegnano i metodi decisionali degli utenti e così facendo aprono spazi di sviluppo inattesi e opportunità impreviste. C’è un rapporto simbiotico tra cultura tecnologica e quella creativa, che mette in scacco e rende obsoleto il dualismo tradizionale tra cultura scientifica e quella umanistica. E questo fa sì che anche dentro i processi della globalizzazione si aprono, come già diceva Caronia <<spazi locali per vivere, costruire, interpretare e sviluppare esperienze virtuali e reali che estraggono dal nuovo ambiente tecnologico possibilità diverse, estranee, opposte alla logica del dominio tipica dei “piani Alti” di queste tecnologie: con possibilità diverse: esperienze di condivisione, di conoscenza, di reciprocità, di gioco e di travestimento, di cooperazione e di sperimentazione di nuova socialità>>.

 

Eleonora Fiorani

 

[1] A. Caronia, Tecnologie: dalle protesi al mondo (dattiloscritto).

[2] P. Lévy, L’intelligenza collettiva, Feltrinelli, Milano 1996.

[3] P. Lévy, L’intelligenza collettiva, Feltrinelli, Milano 1996: 29-30

[4] Antonio Caronia, Il cyborg. Saggio sull’uomo artificiale, Shake, Villanovetta di Verzuolo (CN) 2001: 38

[5] B. Vroege, Il futuro della fotografia, in E’ contemporanea la ftografia? a cura di R. Valtorta, Lupetti, Milano 2004: 91.