In attesa del sesto e conclusivo incontro del ciclo La fine dell’uomo, inauguriamo una panoramica di contributi a stretto giro sui temi “caldi” di questa serie di incontri.
“Che cos’è l’Antropocene?” Questa domanda comincia a venire posta anche in Italia, e non solo all’interno delle accademie. Una parola nuova si aggira nelle menti di chi vuol capire qualcosa sul presente. Ad essa si accompagnano sentimenti e reazioni diverse. Vi è già chi la disgusta, chi la ritiene un’arma nelle mani dell’analisi critica del presente, chi non vi riesce a vedere nulla di politico (“ma questa è scienza, cosa c’entra con la lotta politica?”), chi si prepara a combatterla con ogni mezzo. Ma che cos’è l’Antropocene? E perché questo concetto sta scaldando gli animi, al di qua ed al di là dell’oceano Atlantico, sopra e sotto l’Equatore?
L’Antropocene, in effetti, non è. Esso è, potremmo dire, un “significante vuoto”. Si tratta di una parola che evoca qualcosa ed i cui vari significati hanno solo qualche sottile linea di congiunzione l’uno con l’altro. Proviamo a dirlo nel modo più generale possibile: l’Antropocene sarebbe l’epoca geologica attuale, cominciata in un momento imprecisato del passato, in cui l’uomo sarebbe il principale fattore “influenza” (ma cosa significa influenzare?) esistente nel pianeta Terra. Risulta molto chiaro come una simile definizione non serva né insegni nulla; e sopratutto, che bisogno c’era di inventare un termine del genere, o almeno, di donargli un valore politico? Non bastava forse parlare di “crisi ambientale”? Come mai ribolle, nel mondo accademico ed in quello della divulgazione, nella teoria critica e nel conservatorismo sociale più radicale, nell’ecologismo come nel movimento produttivista, un dibattito feroce su tale termine? Per capire questo, bisogna innanzitutto capire che ci sono almeno tre possibili modi di intendere l’Antropocene. Esso può essere buono, catastrofico o relazionale.
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