Antonio Caronia | (Linus dicembre 1983)
In un recente convegno (Teoria dei sistemi e razionalità sociale, Bologna, 21/22/23 ottobre 1983) si è parlato da molti punti di vista e con grande passione dello stato delle scienze sociali oggi, in relazione al nuovo paradigma della cosiddetta “teoria dei sistemi” introdotta in sociologia principalmente ad opera di Niklas Luhmann. Non sono sicuro di aver capito bene tutto quello che ho ascoltato, perché non sono né filosofo né sociologo, ma alcune cose mi sono sembrate interessanti, il concetto di sistema, ha spiegato a un certo punto Luhmann nella sua introduzione è di tipo “autoreferenziale”, intanto perché la descrizione di un sistema è essa stessa un sistema, ma anche perché, in un senso più specifico, è il sistema stesso a produrre gli elementi di cui è costituito. In modo che la sua organizzazione in un dato momento è il risultato dei rapporti e delle relazioni fra i suoi elementi interni. E, come è naturale, lo stesso carattere di “autoreferenzialità” è insito nella teoria dei sistemi: è proprio questo carattere, secondo Luhmann, che consente alla teoria di svilupparsi senza riferimenti a finalità esterne (e quindi senza infiltrazioni di un punto di vista “morale”). Il concetto di “sistema autopoietico” (cioè autoproducentesi, autocreantesi), Luhmann lo trae esplicitamente dalla biologia e dalla cibernetica: il sistema biologico, o, se volete, cibernetico, è quello che è capace di mantenersi stabile attraverso l’omeostasi, cioè un interscambio di materia, energis, informazione, fra interno ed esterno in grado di produrre nel sistema le modificazioni necessarie a garantire la sua sopravvivenza in relazione agli stimoli dell’ambiente. È stato a questo punto che mi è scattato un relais nella testa: mi sono improvvisamente ricordato dove avevo letto per la prima volta quel curioso termine (omeostasi): era stato verso la metà degli anni Sessanta, in un racconto di Philip K. Dick. A quel punto ho smesso di ascoltare e mi sono messo a divagare. Potremmo dunque considerare la fantascienza di Dick come una antesignana delle più recenti teorie sociologiche: i suoi universi sono proprio dei “sistemi” nel senso di Luhmann, che si autoregolano, riproducono costantemente le condizioni della propria esistenza in modo del tutto immanente, dilatandosi fino a comprendere nel possibile (o nel pensabile) anche l’improbabile, come accade, per fare solo un esempio, in Ubik. Ma in realtà è tutta la fantascienza, nella sua qualità di elemento egemone, riassuntivo, dell’immaginario tecnologico contemporaneo, ad avere le caratteristiche del sistema cibernetico. La fantascienza “sociologica” degli anni Cinquanta si conferma in questo senso come il momento in cui questo genere letterario basso acquista una prima coscienza di sé. E comincia a diventare fenomeno culturale di massa, costituendo quel “polo fantastico” contrapposto a un “polo realistico” di cui ha parlato più volte Pagetti (rimando al suo intervento contenuto nel volume L’Einstein perduto, atti del convegno di Ferrara del 24/26 ottobre a cura di Alberto Poggi, Edizioni Coop. Charlie Chaplin, 1982). La recente ristampa di un romanzo di Sheckley, anche se non dei migliori, permetterà di verificare questa tesi anche al lettore più distratto (Gli orrori di Omega, Classici FS, Mondadori). Per citare sempre Luhmann, è nel momento in cui la teoria dei sistemi riconosce se stessa come soggetto e contemporaneamente come oggetto di indagine che nasce l’ironia: una strada che appunto la fantascienza sociologica – e il suo rappresentante più swiftiano, che è stato Sheckley – aveva già percorso nel rovesciamento della tradizione del romanzo utopistico. E non è forse un caso che uno degli autori di sf che, rimessosi a scrivere dopo anni di silenzio, riproponga la tematica della fantascienza come autoriferimento, come autocitazione, arrivi proprio dall’esperienza degli anni Cinquanta, e si chiami Frederik Pohl (v. il suo recente Alla fine dell’arcobaleno, Nord).