Nulla è dato per sempre
Abstract
“Alle volte il mondo corre il serio pericolo di finire senza che nessuno se ne accorga. Così, di colpo. Se questo non è ancora successo forse ciò è dovuto a delle piccole azioni che alcuni esseri umani hanno compiuto con naturalezza e senza enfasi. Nessuno li ha ringraziati per questo, ma la felicità che hanno potuto provare in quei momenti li ha comunque ricompensati.” (Più prudentemente sarebbe meglio dire: forse li ha in qualche modo ricompensati)
Nella primavera del 2012 Antonio ed io abbiamo curato per l’editore Mimesis la ristampa del libro del collettivo di Un’ambigua utopia edito nel 1979 da Feltrinelli. Per la stesura della nuova introduzione ci siamo scambiate alcune mail.
Due sono del 24 marzo 2012:
“Rileggo tutto questa sera e ti rimando una mail domani mattina, intanto mi sono accorto accidenti di aver omesso una virgola nella citazione di Musil, ti mando anche la pagina del testo. Ciao Giuliano”
“Mi dispiace far la parte del saccente, ma io mi ero già permesso di aggiungerla, quella virgola, all’ultima rilettura, anche senza aver trovato il testo nel libro (neppure cercato…) J Ant”
In quello stesso anno, l’ultimo di Antonio, il 3 luglio 2012 Antonio risponde con entusiasmo all’invito di Giovanni Leghissa a scrivere un articolo per Aut Aut sul numero monografico dedicato al postumano e gira la mail a amiche e amici.
“Grazie davvero dell’invito. E anche della bellissima notizia, che tale sarebbe anche se io non fossi stato invitato a scrivere J. La rivista filosofica a cui sono più affezionato affronta uno dei temi a cui (con pochi o tanti risultati) ho dedicato gran parte della mia ricerca. Non potrei essere più contento” e conclude più oltre “leggerò e mediterò più attentamente il progetto che hai formulato, e ne terrò conto in modo più articolato di quanto non stia facendo adesso, ancora preso da una (per me piacevole) euforia.”
Sono gli ultimi mesi, gli ultimi 6 mesi, in cui Antonio avrà ancora energie per pensare, progettare, fare.
Ma di quell’intervento, di quel lavoro che gli procurava quella “piacevole euforia” non ne farà nulla. Potrei sbagliarmi ma non mi risulta che ci abbia neppure provato.
Di fronte alla sua personale fine del mondo Antonio, alla conclusione della sua vita, non ha lavorato a quello che poteva essere il suo testamento, il suo lascito teorico su un tema per lui così decisivo come quello del postumano, su una rivista prestigiosa. Ha dedicato invece le sue ultime energie a tutt’altro, a un seminario (a Macao) su un tema molto dibattuto negli anni ’70 ma assai impervio da affrontare oggi, quello su normalità e follia.
Certo, c’era una motivazione forte. Tra le parole chiave del seminario la più importante era MALATTIA, ed è a questa urgenza privata che si lega l’esigenza non di predisporre un testamento ma al contrario l’idea di un ricominciamento, qualcosa su cui ricominciare, iniziare da capo.
Ernesto De Martino, uno dei più importanti antropologi del Novecento, l’unica figura di intellettuale italiano del ‘900 che possiamo accostare a quella di Michel Foucault, di cui ricorre proprio quest’anno il cinquantenario della morte, nel libro postumo sulla fine del mondo (contributo all’analisi delle apocalissi culturali) scrive:
“Eppure, se un giorno, per una catastrofe cosmica, nessun uomo potrà più cominciare perché il mondo è finito?” “Ebbene, che l’ultimo gesto dell’uomo, nella fine del mondo, sia un tentativo di cominciare da capo: questa morte è ben degna di lui, e vale la vita e le opere delle innumerabili generazioni umane che si sono avvicendate sul nostro pianeta.”
Un tentativo di ricominciare da capo è stato l’ultimo gesto che Antonio ci ha lasciato. Ricominciare, ricominciare ancora una volta.
Antonio, io credo, è sempre stato attratto dall’idea che possa darsi una forma di vita in cui possa formarsi un nuovo tipo di umano capace di vivere senza la necessaria, reale o immaginaria che sia, distanza tra se e il mondo.
Capace però di mantenere quel grado di libertà che solo quella distanza, quella radura in cui ci si trova gettati, senza protezione alcuna, sembra poterci garantire.
Antonio ha lavorato su due sponde opposte dell’umano: quella che difende la distanza e che per sua natura necessita di sistemi protettivi, illusori, creati ad hoc e che vanno alimentati e rinnovati incessantemente; e quella che sembra profilarsi in questo mondo supertecnologizzato che assottiglia sempre più questa distanza fino, forse, in prospettiva a cercare di farla sparire del tutto.
Questa dicotomia nel lavoro di Antonio è il suo lascito più ricco perché è questo il conflitto interno ed esterno a noi in cui oggi ci stiamo giocando tutto.
E allora alle soglie della propria personale fine del mondo cosa può significare una virgola dimenticata? Soprattutto esser contenti di non averla tralasciata, lasciata scivolar via; di aver impedito una noncuranza, una leggerezza.
In realtà una virgola può essere decisiva, qualcosa da cui può dipendere il destino del mondo. E chi potrebbe affermare con sicurezza il contrario? E se a causa di quella mancata virgola il mondo avesse cessato di esistere? Non l’apocalisse, con tanto di trombe e giudizio, ma un pluf! E il mondo non c’è più. Tutto a causa di una virgola.
Antonio ha certamente potuto tirare un sospiro di sollievo, anche senza il testo originario, senza un’indicazione esterna c’è arrivato da solo e così forse ha potuto pensare con sollievo che il mondo, in quel momento e per quel motivo, non sarebbe scomparso ancora.
Poi, certo, per lui sarebbe finito comunque a breve, ma avrebbe avuto ancora una chance personale per fare un altro gesto ancora, un gesto per ricominciare da capo.
E ricominciare da capo significa porre ancora una volta una distanza tra se e il mondo.
E così Antonio ha fatto una scelta. Se mai avesse vissuto ancora ci avrebbe di nuovo ripensato.
Forse questo, in definitiva, è proprio uno di quei conflitti, che come lui sosteneva, non si possono e non si devono risolvere una volta per tutte.
Giuliano Spagnul, 5 giugno 2015