“Non abbiamo futuro, perché il nostro presente è troppo mutevole. Abbiamo solo rischi di gestione. La ricomposizione degli scenari a partire dai singoli eventi. L’individuazione di modelli” dice un personaggio di Gibson nel romanzo L’accademia dei sogni
Ma c’è di più della nostra realtà. La messa a valore del linguaggio e delle relazioni implica la riduzione del linguaggio ad algoritmo, della relazione alla connessione. Implica la restrizione degli spazi di libertà, l’assoggettamento dei corpi, la normalizzazione dei linguaggi. Restrizione, assoggettamento, normalizzazione, sono certo suggeriti dal sistema politico, economico, mediatico, ma sono realizzati dalla più capillare rete di carcerieri che mai si sia vista: noi stessi. Così funziona oggi l’intreccio (al quale Michel Foucault dedicò i suoi studi), tra la società della disciplina e la società del controllo (spesso dell’autocontrollo). Ecco perché (per usare il termine spinoziano di Benasayag) questa è l’epoca delle “passioni tristi”.
Ma allora, se ormai ogni aspetto della vita umana, ogni secondo del nostro tempo è coinvolto (sussunto) nel processo di valorizzazione, dobbiamo rassegnarci all’eternità di questo incubo? Io credo che possiamo uscirne, se vogliamo. Perché una segregazione a vita nel purgatorio, quando il paradiso non arriva mai, a lungo andare è intollerabile. E l’arte non ha nulla da dire (o da fare) in questa situazione? Forse l’arte nel senso dell’“arte di mercato” è effettivamente sorda e muta a questo proposito. Ma ci sono, per fortuna, altre esperienze: quelle di tanti artisti – e anche persone che non si definiscono tali – che lavorano all’interno o a contatto coi movimenti di opposizione sociale, e producono, più spesso che opere, azioni e situazioni che mettono in discussione questa realtà.
Se oggi l’arte (o l’attività prevalentemente espressiva degli esseri umani) ha un senso, deve parlarci di questo. Deve parlarcene proclamando e praticando l’irriducibilità del linguaggio all’algoritmo, la ribellione dell’espressione alla merce, la fuga della vita dall’immaginario precotto ed eterodiretto. L’arte come tavolozza del possibile oggi non può che essere ribellione e sovversione. Da sempre, come ci disse Hölderlin, “là dove c’è il pericolo, là cresce anche la salvezza”.
Questo testo è un estratto di un articolo di Antonio Caronia dal titolo Soggettivita’, linguaggio, ribellione pubblicato su D’ARS magazine, di cui Caronia fu collaboratore per diversi anni, trovate online il testo completo. Nella conclusione Caronia scrive:
È giusto quindi cominciare con le parodie e con le beffe. La generazione più irrisa e truffata di tutta la modernità sta affilando i suoi denti, le sue parole, le sue righe di codice. Immaginari contro immaginari, parole contro parole, algoritmi contro algoritmi.
A questo mi sento i aggiungere in consapevole dissonanza con lo stile di Caronia “relazioni contro connessioni”. Mi riferisco a quelle relazioni che eccedono un’analisi di sussunzione o tecnologica. Relazioni che si iscrivono nei corpi e che diventano esperienza viva che risuona nell’altra o altro in cui è possibile sentire l’esperienza della libertà. Un’esperienza che ci permette di fuggire dalla fascinazione per false figure eroiche e per illusori prestigi accademici. Penso di poter dire questa verità tanto più perchè il testo che ho appena letto parla di un’esperienza particolare, l’intervento di un misterioso artista dal nome Fosco Loiti Celant presso l’Università Statale nei giorni del Salone del mobile del 2010. Questo azione politica nasceva non solo per gettare un sassolino negli ingranaggi dell’enorme macchina culturale capitalistica ma soprattutto per riflettere sul senso dato ai propri desideri. Cosa comporta soddisfare ciecamente il proprio desiderio dal più piccolo cioè quello di avere in omaggio un gadjet firmato a quello più grande, di creare un modello culturale dominante? Domande che rimangono per fortuna senza risposta e che ci lasciano l’inquietudine nella ricerca di significati che non siano dati una volta per tutte.
Loretta