Arte e politica | La condizione della violenza

di Paolo Gallerani

LOGIC LANE – ANTONIO CARONIA GIORNATE DI STUDIO

5/6 giugno 2015 – Accademia di Belle Arti di Brera Milano

 

Con Antonio Caronia siamo stati colleghi all’Istituto sperimentale onnicomprensivo di Bollate, dove arrivò, mi pare nel 1977/78, fino all‘82 quando nel maggio Antonio realizzò la “Rassegna di teorie e pratiche della simulazione” Il Gatto del Cheshire («Un’Ambigua Utopia», Numero speciale sulla simulazione, n. 9, Milano 1982), cui partecipai nella sezione delle arti visive organizzata da Alik Cavaliere e Vincenzo Ferrari che anche voglio ricordare oggi in quest’aula.

Il titolo di questo intervento Arte e politica. La condizione della violenza è il tema di un seminario che ho curato alla scuola di Scultura dal 2002 per quattro anni, fino al 2005. Il seminario ha proseguito e sviluppato l’attività iniziata nelle sessioni 2000 e 2001 con il titolo Arte e politica, estetica, estetico. Semplificando, la prima motivazione era quella di portare nella scuola almeno dei frammenti di aree di lavoro complesse al di là dell’estetizzazione dominante diffusa nel prodotto culturale.

Il seminario in cui si sono innestati gli interventi di Antonio Caronia, aveva due caratteristiche: quella secondo cui lezioni – azioni – esposizioni, aperte al pubblico, venivano svolte, salvo eventi speciali, nell’ambiente di lavoro dell’aula di Scultura, cioè nell’aula laboratorio con gli studenti nel loro spazio, e la trasversalità generazionale dei relatori, oltre che delle aree tematiche, con interventi sia di studiosi degli specifici che di studenti e giovani artisti.

Nell’ambito del rapporto arte e politica, nel 2002 è stato individuato come tema di riflessione La condizione della violenza. Perché? L’arte ha sempre avuto a che fare con la violenza; arte, teatro, poesia ne sono intimamente connesse, nel modo diretto della rappresentazione e del canto, o nella permanenza dell’ente sullo sfondo.

Per l’individuazione della “condizione della violenza” sono stati proposti alcuni testi di riferimento iniziale:

. Jean-Paul Sartre, le due sezioni del 1947/48 in Quaderni per una morale raccolte nel volume L’universo della violenza, 1997 a cura di Fabrizio Scanzio; Sartre presenta la violenza come «un certo tipo di rapporto con l’altro» e come una possibilità costante della condizione umana le cui manifestazioni più comuni, quasi paradigmatiche sono tre: lo stupro, l’autodafé (“il giudizio di Dio”), la menzogna;

. Caronia indica il testo di Hannah Arendt, Sulla violenza, 1970;

. Albert Camus, L’uomo in rivolta, 1951, in particolare il capitolo Rivolta e arte;

. Roy Gutman, David Rieff, Crimini di guerra, 1999, una sorta di impressionante trattato enciclopedico delle più recenti infamie, subito dimenticate, obliate, dopo la copertura mediatica.

Oblio che corrisponde forse a una AMPUTAZIONE simbolica.

 

Antonio Caronia indica come tema per il seminario Tecnologia e violenza, titolo che cambierà al momento dell’intervento nel marzo 2002 [l’Undici settembre è appena accaduto], in Violenza e tecnologia. Trascrivo l’abstract dell’intervento:

 

«Ogni protesi tecnica, secondo l’insegnamento di McLuhan, amputa (simbolicamente) una parte del corpo o una funzione mentale. E’ un trauma, a cui la cultura occidentale (e forse anche altre culture) reagiscono con un’operazione di anestesia sulla parte o sulla funzione amputata.

A questa anestesia l’arte ha da sempre collaborato (anche se con atteggiamenti ed esiti spesso opposti). Tuttavia oggi la tecnologia tende sempre più a presentarsi come “mondo” piuttosto che come “protesi”.

Il problema della violenza inerente alla tecnologia, oggi, tende quindi a spostarsi da un livello epistemologico (o soggettivo) a un livello ontologico (o oggettivo)».

 

Sono molte le domande che si pongono. E le risposte mancano. Ma, come dice Eleonora Fiorani, sono importanti le domande che si pongono, non le risposte. cosa ce ne facciamo delle risposte? Domande che producono nuove domande, che aprono a altre possibilità.

Protesi tecnica è il computer? La memoria artificiale? L’intelligenza artificiale? La comunicazione di internet?

Allora l’amputazione diventa globale. E l’anestesia?

Come si anestetizza un’amputazione generalizzata?

E l’arte come collabora a questa anestesia, anche se con atteggiamenti ed esiti opposti?

Forse una possibile risposta si può trovare nel secondo intervento proposto da Antonio Caronia per la sezione 2004 del seminario.

Caronia presenta la “Performance Intermediale” Geometrie senza organi – Artaud/Ballard, realizzata con Stefano Caronia e attuata il 5 maggio nell’aula 10 del Teatro.

Scrive Caronia nell’abstract:

 

«Due autori del Novecento sono evocati in questa performance, due discorsi sul corpo, diversi ma straordinariamente attuali, vengono messi a confronto: l’incontro e lo scontro fra queste due istanze vorrebbero illuminare la nostra condizione di cyborg.

Il corpo senza organi di Antonin Artaud (1896-1948) narra e denuncia lo spezzarsi del corpo, e il suo possibile ricomporsi al di fuori della dittatura linguistica imposta all’esperienza dall’ordine sociale. In James G. Ballard (1930) e nel suo Crash(1973), c’è invece il superamento della usuale funzionalità del corpo, la cuiorganicità deve essere superata in vista di nuove geometrie espressive, di nuovi possibili significati forniti dalla fusione orgasmica e distruttiva con la macchina. Ma entrambi gli autori hanno annunciato, con acutezza e in anticipo sui tempi, una mutazione dei corpi e dei sé che solo oggi, con l’avvento delle tecnologie informatiche e della globalizzazione, si dispiega pienamente divenendo esperienza quotidiana».[1]

 

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C’è una dimensione apocalittica evocata in questo convegno in altri interventi a cui ho avuto la possibilità di assistere con grande interesse e partecipazione.

Mi riferisco tra gli altri, agli “scenari apocalittici” indicati da Patrizia Moschella sui processi di controllo capillare sui sistemi universitari:

– processi di automazione a orientamento ispettivo, attraverso le nuove tecnologie;

– acquisizione di competenze certificate;

– pacchetti di competenze distribuiti non dai docenti ma dai revisori;

– conseguente innesto di processi di auto espulsione (per chi nella gabbia non ci sta).

Franco Berardi ha parlato di epoca che viene – o in cui siamo – come epoca di miseria, violenza, fascismo, depressione.

Ma io sono anche convinto, e non da oggi, che qualunque regime lasci delle zone scure in cui è possibile agire. Perché il regime è sciocco, non è intelligente, LASCIA SPAZI.

Zone scure che sono PIEGHE in cui è possibile lavorare, anche all’interno del regime.

Progettare UTOPIE – projectil – proiettile.

 

Ma La piegaLe pli, rimanda a Deleuze.

Vorrei parlare dell’ultimo intervento di Caronia nel seminario che ho curato nel 2008. Il titolo del seminario questa volta è Scultura e altri specifici. Rapporti di connessione o di riduzione tra gli specifici della scultura e delle altre aree disciplinari nel contemporaneo.

Formare pieghe è ciò che appartiene alla scultura. Quante pieghe ha realizzato la scultura? Le pieghe delle vesti; la piega di un gomito, di un ginocchio; le infinite pieghe delle strutture arboree; le pieghe delle foglie gotiche e barocche.

È a partire da queste considerazioni che mi sono sentito di chiedere a Caronia di illustrare nella scuola, come fece da par suo, questa complessità, con i necessari rimandi al pensiero scientifico e allo straordinario testo di Deleuse; complice una richiesta di tesi di uno studente, Ilaria Beretta, che riguardava il desiderio di avvicinamento alla “teoria delle catastrofi” di René Thom.

Antonio Caronia rispose con la lezione Catastrofi e Pieghe, dell’aprile 2008.

Scrive nell’abstract:

 

«La “teoria delle catastrofi”, formulata dal matematico francese René Thom negli anni Sessanta del Novecento, ha goduto di una certa attenzione in Europa e nel mondo, anche al di fuori dell’ambiente matematico, nel corso dei quindici anni successivi. Oggi essa sembra nuovamente dimenticata a favore di teorie più spendibili sul piano applicativo (pensiamo al cinema) come le geometrie frattali. Eppure la teoria di Thom, che si offriva come un modello per la descrizione e la spiegazione dei processi di generazione delle forme (morfogenesi) è forse l’ultima grande teoria matematica “classica” (cioè prima dell’avvento dei calcolatori) e la prima di una serie di nuove teorie destinate a guidarci sul terreno della cosiddetta “complessità”. Una teoria di confine, quindi, che vale la pena di riprendere anche in virtù del nuovo sguardo che può aiutarci a gettare sull’arte storica e sulle nuove sperimentazioni multimediali».

 

 

[1] Si veda Antonio e Stefano Caronia, scheda di presentazione della Performance IntermedialeGeometrie senza organi – Artaud/Ballard, Associazione Reload, Milano 2001, «Con Crash, James G. Ballard ha fatto di più che percorrere una delle perversioni sessuali dell’era tecnologica. Ha mostrato come l’autonomizzarsi della tecnologia e del capitale, il dominio del lavoro morto sul lavoro vivo, renda inutilizzabili non solo i tradizionali percorsi linguistici, ma anche la più profonda attività comunicativa ed espressiva del corpo. […]

L’universo di Crash comporta un superamento della usuale funzionalità del corpo, la cui organicitàdeve essere superate in vista di nuove geometrie espressive, di nuovi possibili significati forniti dalla fusione orgasmica e distruttiva con la macchina. Ballard ritrova così, partendo da esigenze diverse e con modalità diverse, uno dei concetti cardine del secondo Novecento: quello del corpo senza organi di Antonin Artaud. Lo spezzarsi del corpo, il suo ricomporsi al di fuori della dittatura linguistica imposta all’esperienza dall’ordine sociale, torna più volte nell’opera di Artaud: in ultimo, nella trasmissione del 1947 censurata dalla radio francese Pour en finir avec le jugement de dieu(Per farla finita con il giudizio di dio), in cui scoppia letteralmente la visione e la rivendicazione del nuovo corpo […]

“Il corpo senza organi, l’improduttivo, l’inconsumabile, serve da superficie per la registrazione di tutto il processo di produzione del desiderio.” (Deleuze e Guattari). Nel corpo straziato dagli incidenti automobilistici che domina in Crash, Ballard inscrive una nuova versione, più sommessa e disincantata, ma ugualmente radicale, dell’obiettivo che innervò tutta la vita di Artaud: “spezzare il linguaggio per raggiungere la vita.”

Fino a ieri non era forse possibile vedere una connessione fra due autori così diversi. Se ciò è possibile adesso, è perché entrambi hanno annunciato, con grande acutezza e largo anticipo sui tempi, una mutazione dei corpi e dei sé che solo oggi, con l’avvento delle tecnologie informatiche e l’instaurarsi del quadro sociale e immaginario che va sotto il nome di postfordismo, si dispiega pienamente, diviene esperienza quotidiana, nuovo senso comune».